Paolo Rumiz: Viaggio al Polo, dove l’orso caccia l’uomo

10 Settembre 2008
Da quando la banchisa si è allontanata dalla costa, Nuvuk ha dovuto convivere con gli orsi. Orsi bianchi, s’intende, che non vanno mai in letargo; armadi ambulanti pronti a divorarsi un uomo. Le tribù Inuit di qui l’hanno imparato velocemente, perché li conoscono da sempre. Succede che Nuvuk è il villaggio più settentrionale degli Stati Uniti e, in assenza delle loro comode piattaforme da caccia in mare, i bestioni hanno invaso la terraferma, con l’odore del cibo che li attira fatalmente verso l’abitato.
Per capire, basta ascoltare la radio. Non c’è mattina che non si senta un bollettino-orsi, spesso con aggiornamenti in serata sullo spostamento dei medesimi. Sulle lunghezze d’onda dell’Artico sentirete lo stato d’assedio più surreale che si possa immaginare.
"Segnalato un orso nei dintorni del grocery store in zona aeroporto..."; "Attenzione a ovest del City Hall avvistato un adulto pericoloso nella zona delle paludi…"; "Carcassa di balena spiaggiata a Nordest di Browerville, un branco di sette orsi la sta divorando, restare a distanza prudenziale…". Qui, al mattino, nessuna madre sensata lascerebbe andare a scuola i figli senza avere sentito la radio. Ma anche così nessuno si fida: i genitori si tengono i bambini sempre appresso, a bordo di robusti scooter a quattro ruote, che sfrecciano ovunque con gran polverone. "Attento agli orsi", mi hanno detto due indigeni vedendomi girare da solo. Scherzavano, ma mica tanto.
Ovviamente, vietato allontanarsi a piedi senza un fucile. E non dev’essere nemmeno un fucile qualunque. Con gli orsi bianchi, per fermarli, hai bisogno di un cannone a proiettili esplosivi. Se non gli apri un buco nella pancia non smettono di caricare. Dappertutto, nei posti pubblici, hai cartelli che dicono cosa fare "nel caso che". Primo, stai sempre in guardia. Secondo, stai lontano dal cibo. Terzo, portati un’arma. Quarto, non metterti tra una mamma e i suoi cuccioli. Quinto, se si avvicina non correre, e cerca di sembrare più alto agitando la tua giacca sopra la testa. Parola del servizio orsi, telefonare al 907.852611.
L’altra sera, tornando a casa completamente solo, sentivo solo lo scalpiccio delle mie scarpe sulla ghiaia e la paura dell’orso mi ha preso. Quella cosa bianca come un fantasma, enorme e metafisica, era entrata in me. A ogni angolo sentivo che potevo trovarmelo di fronte e cercavo istintivamente (e inutilmente) un posto dove arrampicarmi. Nuvuk è un posto estremo, uno dei posti della Terra dove, come Murmansk e Kirkenes nel Nord della Scandinavia, puoi sentire il Polo quasi dall’odore.
Arrivo qui e trovo subito vento forte, nubi basse che rotolano sulla tundra, una pioggia gelata che punge le guance come aghi. Il paese è fatto dall’aeroporto con accanto un reticolo di case alla buona, strade rotte dal gelo e acquitrini coperti d’erba rossastra. Poi una spiaggia funebre, di ghiaia color antracite, disseminata di ossa di balena, con dietro uno spazio sterminato, dalla nudità mongolica, vuoto di tutto tranne che d’acqua, che ristagna in superficie con migliaia di laghi. Davanti, il nulla. Fino al Polo, solo mare aperto. Milleottocento chilometri senza barriere, arcipelaghi, isole.
Nuvuk, in inglese Barrow, è un villaggio eschimese di cacciatori di balene, forse il più antico del Nordamerica assieme a quello, poco distante, di Point Hope. Il fronte della banchisa è da qualche parte al largo - a trecento miglia dicono i satelliti – e nessuno sa quanto velocemente si avvicinerà alla costa quando la temperatura precipiterà a meno quaranta e oltre. D’estate il ghiaccio arretra, certo. Ma d’inverno – lo dicono sempre i satelliti – il freddo e l’estensione dei ghiacci sono ancora quelli di una volta. Intanto il paese con le sue tremila anime aspetta le tempeste d’autunno e la notte del solstizio, che qui durerà ottantotto giorni di fila.
«Vai a Barrow – mi ha esortato l’oceanografo Tom Weingartner dell’università di Fairbanks mostrando i diagrammi della calotta polare in zona alascana – è un punto-chiave per misurare il nuovo clima». L’ultima volta che il ghiaccio ha toccato questa costa in tempo d’estate è stato nel 1994. Da allora la banchisa non ha fatto che arretrare nella bella stagione. La conferma è arrivata subito. A casa degli Elbert, la famiglia che mi ospita, trovo un grosso libro dal titolo "Balene, ghiaccio e uomini", che mostra stampe e foto di velieri stritolati dai ghiacci in questa stessa stagione, inizio settembre; e ciò in anni in cui la banchisa era stabilmente più vicina alla costa. Scene, mi avvertono, inimmaginabili oggi.
Qui era l’ultima tenaglia tra la costa e i ghiacci, ed è qui che un secolo fa Roald Amundsen capì di aver compiuto il Passaggio a Nordovest. Dopo l’arcipelago a Nord del Canada, per completare la strada al norvegese non restava che arrivare a questo punto, dove la rotta l’avrebbe portato a Sudest in acque più sicure, fino allo stretto di Bering. Il lungo tratto di costa quasi rettilinea tra la foce del MacKenzie e questo solitario promontorio era l’ultima incognita. Per passare, Amundsen aveva davanti un interminabile e strettissimo canale tra i ghiacci e il continente, un sandwich che poteva richiudersi in ogni momento, ma ne venne fuori grazie alla fortuna e al bel tempo.
Che posto. Altro che New Bedford e Nantucket. Lì non è rimasto più niente delle storie narrate da Melville. Se volete svernare in rudi taverne d’angiporto e incontrarvi gente drogata dal Polo, farvi servire al bancone una tortilla dalla settantenne Fran Tate, ex attrice ancora fru-fru con un enorme fiocco bianco in cima ai capelli, se volete incontrare ramponieri e capitani pieni di storie da raccontare, allora dovete venire a Nuvuk, dove la caccia alla balena si svolge ancora, con la partecipazione di tutto il paese, a maggio e a fine settembre. Per capirlo basta farsi un giretto e guardare cosa gli eschimesi lasciano fuori dalle loro case.
Vertebre di balena, pinne caudali accatastate accanto a copertoni, barili di petrolio e slitte di legno deformate dal gelo; rostri, pesanti come piombo, accanto a jeep dalle gomme sgonfie; mascelle gigantesche e costole grandi come due uomini adulti abbandonate all’aperto fra marmitte arrugginite e resti di motoslitte. Enormi scheletri di pinne caudali, cioè di zampe posteriori, giacciono impolverati nei cortili tra topolini muschiati e lemming – specie di scoiattoli rossastri a coda corta - che ti passano tra i pedi come saette.
E poi teste cornute di caribù, lasciate a frollare al vento e alla pioggia, ti guardano con l’occhio spento tra le costole di barche in disuso; e poi ancora pelli di lupo accatastate, carne appesa a stagionare su ganci in cima ai tetti accanto alle antenne paraboliche; accanto alle porte, stinchi di non so che animale, cui è stata appena spellata la bistecca. E radici di alberi portati dalle correnti del Pacifico, l’unico legname che esiste in questo mondo senza vegetazione; radici venute da chissaddove, Honolulu, Patagonia, California, Cina.
Davanti agli uffici pubblici l’esposizione dei trofei è solo abbellita da scritte e piedistalli. Per il resto, una modernità divorata dal tempo convive disinvoltamente con questa biblica rappresentazione dell’eterno. Qui, dove non cresce niente e la caccia e la pesca sono l’unica risorsa, gli animali – in prima fila la balena – diventano simboli e totem. Le loro ossa sono state per millenni anche l’unico materiale edilizio. Quindi le carcasse vanno esposte, non nascoste come farebbero gli "yankee", che ci leggono solo macelleria.
A prima vista, Barrow sembra prendere sotto gamba il mare più pericoloso del mondo. L’argine sulla riva è ridicolo, tre metri appena, fatto di sacchi di ghiaia. Cosa succederà con le tempeste e i ghiacci, si chiede il visitatore. Il fatto è che i ghiacci, una volta stabilmente insediati sopra la massa marina, la comprimono, spegnendo la forza di propagazione delle onde. Una coperta stabile di ghiaccio è essenziale come riparo contro le buriane costiere. Per questo l’inverno, a queste latitudini, è paradossalmente, una stagione nettamente meno pericolosa dell’autunno, quando i ghiacci vanno in collisione e possono schiacciare qualsiasi cosa che galleggia. Finora è stato così. Finora... Chissà quando sarà visibile la bianca fatamorgana in fondo all’orizzonte. Passo lunghi minuti sulla spiaggia davanti al Browers Caffè, dove hanno piantato enormi costole di balena a mo’ di monumento, e guardo al largo per immaginare quel momento; che arriva, dicono, sempre di sorpresa. Qui capita di andare a dormire in una sera brumosa di pioggia e la mattina il termometro è a meno venti, poi davanti appare una stratificazione orizzontale con tutte le tonalità del grigio. Mare, nebbia, nubi, riflesso pallido del sole. In mezzo, una linea bianca. I ghiacci. In dieci minuti passi dagli zero gradi al pack; e la gente, che lo sa, non esce mai di casa senza vestiti caldi di riserva, guanti grossi, cappello di pelliccia. "Arctic is a wild place", l’Artico è un posto selvaggio, ammoniscono. E tu ti chiedi cosa sarà a meno cinquanta.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …