Giorgio Bocca: Miracolo a Milano

12 Gennaio 2009
La neve a Milano anno 2009 è sorpresa, stupore, disordine: una città disastrata da vedere appena alzati in televisione, strade coperte da una poltiglia bianca e nera dove tram e autobus avanzano slittando a passo d’uomo, elefanti su un pavimento incerato. Tutti stupiti, come sorpresi da un’avventura. Telecronisti che sembra vedano la neve per la prima volta, intervistati che sembrano arrivati da Marte e non da una città padana: "ho aspettato il bus per un’ora", "non sono riuscito a uscire da garage con l’automobile", "non riesco a trovare delle scarpe da neve". A me, nato in una città piemontese di neve, sembra che qui a Milano dicano sciocchezze, perdano la testa. Da noi la neve non era solo una benedizione, la coltre che salvava dal gelo le piantine tenere del grano, ma la prova generale della civiltà pedemontana, la nostra piccola guerra invernale per cui tutta la città, ricchi e poveri, si era preparata. S’incominciava a dicembre, si finiva a marzo con la primavera. A novembre, il 23, si correva la coppa Carpano, la prima gara di fondo della stagione, e in casa le donne facevano i calzettoni di lana grezza e i guanti. Poi si andava da un negoziante di tessuti per comprare il tessuto pesante per il cappotto, e dal robivecchi per trovare un paio di sci usati. E arrivava il giorno per noi benedetto in cui qualcuno in casa, mia madre, la domestica a ore che arrivava dalla Bassa di Stura mi tirava giù dal letto gridando: "nevica, nevica"; dalla strada arrivava il rumore dello spartineve che il cartuné Cuniberti aveva già attaccato ai cavalli pesanti da tiro. Oggi, 2009 a Milano, nessuno mi sveglia, alzo le tapparelle e vedo che nevica e che sono, come i milioni che stanno nella megalopoli, nell’imprevisto e nell’incerto. I giornali? Non ci sono, il portinaio non è uscito a prenderli, la strada non è spalata, vedo dalla finestra gente che cerca di mettere in moto un’automobile, pochissimi hanno le catene da neve e quei pochi non sanno come metterle. Ogni piccolo imprevisto naturale, un soffio di bora come una grandinata, per noi moderni è un mezzo disastro: vasi di fiori rovesciati perché non sappiamo come legarli, tetti scoperchiati perché non sappiamo come fissarli; per una nevicata abbondante ma non eccezionale di anni fa crollò il palazzo dello sport e centinaia di tetti e di cornicioni sprofondarono. Siamo una civiltà supertecnica ma fragile. Per una nevica di due giorni, eccezionale per questi tempi, ma non più abbondante di quaranta centimetri (nel mio Piemonte con les neiges d’antan una volta ne scesero tre metri, si camminava nella mia città nelle gallerie e nei camminamenti come negli inverni di guerra sul Pasubio o sull’Ortigara). Ma di fronte a questi due giorni di neve il municipio di Milano è stupefatto, sorpreso, come lo sarebbe se nevicasse a Dubai o a Mogadiscio. Il sindaco di Milano, la signora Moratti, se la cava bene con l’Esposizione Universale e dice la sua se si tratta dell’Hub della Malpensa, ma di fronte alla neve è come una di Taranto o di Pantelleria, non sa più bene cosa fare, non ci ha più pensato, dice: "abbiamo fatto uscire tutti i tram, gli autobus"; ma che cosa sono di fronte ai 1500 chilometri di strada sotto la neve incessante? La modernità è così vulnerabile che supera ogni responsabilità. Ti guardi attorno e capisci che prendersela con i pubblici amministratori è come sparare sulla croce rossa, certo di errori ne fanno, ma è l’intera società, l’intera città, il territorio che ormai sono impreparati alle difficoltà e ai disastri, non a caso uno dei personaggi più famosi d’Italia è il dottor Bertolaso, direttore della protezione civile, l’unico che si affanni a turare con un dito il foro nella diga che dovrebbe proteggerci. Nei tempi andati c’erano fame e malattie e guerre peggiori di adesso; ma c’erano tempi e misure più adatti agli uomini, più lenti. Il ricordo che ho degli anni giovanili è per l’appunto di maggiori sacrifici e penurie e sofferenze, ma di maggiore compattezza sociale, di maggiori esperienza e previsione. Restiamo pure all’emergenza neve. Tutte le città subalpine dove passava un corso d’acqua lo usavano per liberarsi in fretta dalla neve: una strada centrale, via Roma a Cuneo, via Garibaldi a Torino, per cui dopo una nevicata venivano aperte le bealere provenienti dalla Dora e dalla Stura per buttarvi la neve giù dai tetti e dalla strada. Allora, quando la neve, la nebbia e il vento erano ancora normalità del nostro vivere quotidiano, avversità che facevano parte della nostra vita; una nevicata era anche un’occasione di solidarietà e di partecipazione. Nevicava e tu pensavi che in tutte le città, in tutti i villaggi, i tuoi fratelli stavano correndo agli stessi ripari, alle stesse opere che dovunque, anche nelle campagne sperdute, tutti operavano al bene comune. Nella nevicata le campane avevano un suono morbido e fraterno. Oggi gli esperti del "tempo che fa" parlano di neve e pioggia come di sventure in agguato, come di sciagure incombenti. La modernità è più comoda del passato, ma è intessuta di paure.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …