Michele Serra: La caccia al colpevole nel dramma di Pantani
Pantani "ucciso dai giudici" (anche lui?!), Pantani affossato dal Potere Sportivo, Pantani impallinato da "certa stampa", Pantani tradito dall'ambiente, dalla famiglia, dagli amici distratti, dalle donne incuranti, dalla Riviera cinica e gaudente, dalla farmacopea speculatrice, dall'oblio delle folle volubili... Piccole schegge di verità (forse), nessuna bastante a spiegare il precipizio umano del Pirata, che però vengono ingigantite fino al rango di arma letale. L'innocenza restituita (a tutti) dalla morte non basta a placare questa mentalità puerilmente assolutoria, che imputa sempre e comunque "agli altri" il peso della croce che ciascuno si porta appresso, con minore o maggiore disinvoltura. No, si vuole un Pantani vittima anche in vita, incompreso e bistrattato, quasi condotto al suicidio dall'indifferenza e dalla crudeltà del mondo malvagio.
Non è così, non funziona così per nessuno, nemmeno per Pantani. Intanto la depressione (in genere nominata, con eufemismo letterario, "male oscuro", così come il cancro è "brutto male": terapia dello struzzo) è una malattia, diagnosticabile e spesso curabile, non un malefizio. Non è il lusso romantico e maudit degli eroi caduti, è un tragico tilt che coglie anche operai, massaie, docenti universitari, adolescenti. E nemmeno il più scalcinato terapeuta si sognerebbe di dire al depresso che la causa di quello sprofondo psichico è la malvagità degli altri: sarebbe un tremendo, imperdonabile errore. Piuttosto, cercherebbe di indirizzarlo verso uno scavo interiore, perché è l'io che diventa nemico, l'io il carceriere che impedisce di aprire le finestre. E dunque tutto questo imputare alla società, alla sfortuna, all'invidia, alla persecuzione di imprecisati poteri ostili la triste fine di Marco Pantani, è un pessimo, diseducativo segnale indirizzato ai tanti (tanti!) che soffrono della sua stessa malattia.
Non per caso, mentre nelle prime ore della scomparsa del campione si è detto
e ridetto che era stato abbandonato da tutti, ora emergono, come era logico che
fosse, progetti di recupero ideati da qualche amico meno disattento, per esempio
quello di don Gelmini. Le amicizie balorde (che pure non mancano mai, specie per
i ricchi e famosi) paiono meno devastanti e soprattutto meno esclusive di come
piaceva pensare ai teorici del Pantani traviato dai Lucignoli: qualcuno che si
preoccupava c'era, qualcuno che ci provava pure, e la traviatura (vedi il
viaggio a Cuba) era autoinflitta.
E mentre Maradona (altro genio amatissimo, ma bisognoso di aiuto) dichiara che
"la colpa è di tutti", forse specchiandosi nella sua propria
giustificazione permanente, pare ovvio e necessario dire che ciascuno porta la
sua lanterna, nel buio della vita, e che il passaggio più significativo, per
entrare nell'età adulta, è per tutti sempre il medesimo, famosi o non famosi,
bravi e meno bravi: accettare i propri errori, la propria incompletezza,
l'insopportabile eppure evidente scoperta che possiamo deludere gli altri,
dispiacere e non solo piacere, sbagliare e non solo avere ragione, perdere e non
solo trionfare. Che questo ostico rendiconto della propria limitatezza sia
particolarmente duro per un giovane uomo abituato a svettare tra due ali di
folla osannante, è probabilmente vero. Ma additare la fine di Pantani come
eclatante esempio di martirio dell'incompreso è davvero scellerato, perché non
solo i depressi, ma milioni di ragazzi alle prese con la propria complicata
formazione saranno rafforzati nel loro comodo alibi di eterne vittime del mondo.
Il lutto per Pantani è, nello sgomento e nella tristezza, un lutto bello e
consolante: esprime ammirazione, gratitudine e amore per la spettacolosa grazia
atletica dell'uomo che sale, supera se stesso, trasforma una bestiale sofferenza
in una gloriosa arrampicata sull'Olimpo. Perfino il virilismo romagnolo
(struttura psicologico-culturale che non mi è particolarmente cara) assumeva,
in Pantani, cadenze quasi spirituali, leggere, femminili quando inanellava i
tornanti di asfalto come un morbido gomitolo. Non si addice, a questo lutto
concorde, il molle piagnisteo italiota sulle "colpe degli altri". Gli
altri, se hanno colpa, e rimorso, dovranno sbrigarsela comunque da soli, pure
loro, faticando a prendere sonno come a tutti capita, prima o poi.
Lui merita un compianto profondo, e la memoria intatta di chi aspetterà per
sempre, seduto sui prati, di vedere passare il Pirata. Non merita che lo si
agiti come uno straccio inerte, come una bandiera bianca, per potere continuare
a lamentarci ciascuno della sua debolezza, ad aggrapparsi ciascuno alle sue
eterne giustificazioni da bimbo. Siamo spesso soli, tutti, specie nei momenti
decisivi: non possiamo chiedere proprio a un uomo che cercava sempre la fuga,
l'arrivo solitario, di aiutarci a rimanere intruppati nella desolante
mediocrità dei nostri alibi.
Michele Serra
Michele Serra è nato a Roma nel 1954, è vissuto quasi sempre a Milano e ora abita in Appennino. Giornalista, scrittore, autore teatrale, scrive su “Repubblica” la rubrica l’Amaca e sul Post …