Di ritorno da Istanbul dove ha assistito al Congresso degli Scrittori Anonimi, José Costa è costretto a fermarsi a Budapest. Nella sua stanza d’albergo passa la notte a guardare la televisione, cercando di decifrare quelle parole, meravigliato dalla lingua magiara che ‟è la sola che il diavolo rispetti”. L’indomani, assorbito nel tentativo di ordinare la prima colazione in ungherese, quasi perde il volo che lo deve riportare a Rio. Questa sua ossessione per la lingua trasporta i lettori in una vorticosa girandola di situazioni paradossali, amori, libri, idiomi, paesaggi, da Budapest a Rio.
Con una prosa splendida e poetica, Buarque avvolge i suoi lettori e li seduce in un labirinto di simboli. Come in un’illustrazione di Escher, dove una mano disegna l’altra, il libro è pervaso dal tema del doppio, dello specchio: Buda e Pest divise dal Danubio, oscuri ghost-writer e scrittori famosi sotto le luci dei riflettori, la scrittura come dono ma anche come incubo, la fredda Budapest e la solare Rio, le due donne di Costa, l’una presentatrice televisiva (l’immagine), l’altra insegnante di ungherese (la parola). E ancora il bilinguismo come metafora di una personalità divisa, ambigua, che rinvia all’enigma dell’identità.
‟Chico Buarque ha osato molto; ha attraversato l’abisso su di un filo ed è arrivato dall’altra parte.”
José Saramago
‟Forse il più bello dei tre romanzi di Chico, Budapest è un labirinto di specchi e la risoluzione non nasce dalla trama ma dalle parole, come in poesia.”
Caetano Veloso