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di Imre Kertész
Scavando in profondità, interrogando il passato, Imre Kertész ripercorre la sua vita e la sua poetica, senza risparmiare nulla. A partire dalla notte della deportazione, quando vide la morte in faccia nella forma di una schiera di soldati ubriachi pronti a cogliere un qualunque pretesto per far fuori lui e la sua famiglia, fino al premio Nobel e alla vecchiaia. In mezzo, la liberazione dal lager e il ritorno in Ungheria, l’indicibile vergogna per essere sopravvissuto e il senso di inadeguatezza nei confronti di un mondo che non riconosce più. E poi, la scomparsa dei genitori, l’adesione al Partito comunista, l’era Kádár, la caduta del Muro di Berlino, i due matrimoni. A legare tutto questo, i romanzi scritti seguendo un’urgenza inspiegabile, annusando il cinturino dell’orologio perché “l’odore della pelle conciata di recente in qualche modo mi faceva venire in mente l’odore che si diffondeva tra le baracche di Auschwitz”. In questo dialogo tagliente, Kertész rifiuta ogni affettazione e ci consegna una memoria feroce, che getta alle ortiche il facile pietismo e lotta contro l’idea di una memoria “addomesticata” perché smetta di porci domande.
“Dopo Auschwitz è superfluo giudicare la natura umana.”
Imre Kertész (1929-2016), nato a Budapest, è stato deportato nel 1944 ad Auschwitz e liberato a Buchenwald nel 1945. Tornato in Ungheria nel 1948, ha lavorato prima come giornalista, poi …