Bergson è un antico. Pensa la natura, non l’umano. Crede che il pensiero sia una cosa, disposta nell’universo, non una funzione del cervello o la prestazione di un soggetto. Poi, il pensatore più francese d’Europa è forse cinese. Osserva eventi impersonali, rileva equilibri momentanei. Pensa senza fondamento, pensa per superfici sottilissime, aliene a qualsiasi illusione di significato. Infine è il veggente che ha parlato con un secolo di anticipo del nostro mondo. La tentazione del negativo, della denuncia, della nostalgia gli è stata radicalmente estranea. Bergson pensa che tutto sia immagine, ma non pensa che sia sembianza, illusione, manipolazione. Pensa piuttosto che tutto sia immagine e cioè costellazione di doppi, moltiplicazione di eventi, disseminazione di occasioni. Pensa che tutto sia natura, materialità, concatenamento, ma non pensa che tutto sia inerte, che ci siano solo spazi inumani, meccanismi senza invenzione. Pensa che le nostre società vadano verso forme di frammentazione sempre più spinta e di coordinamento sempre più impersonale, ma non pensa che questo significhi nichilismo, annientamento etico, globalizzazione tecnocratica. Pensa piuttosto che un nuovo mondo senza soggetti apra a un nuovo tempo comune. Un tempo in cui urge mettere in campo una serie di nuovi gesti politici. Non decidere ma regolare, non rivoluzionare orizzonti ma riarticolare piani d’immanenza, non oltrepassare situazioni ma riconfigurare concatenamenti. Bergson il greco, il cinese, il contemporaneo ci attende all’orizzonte, dove noi siamo già senza esserci ancora.
Bergson è il più necessario, il più contemporaneo dei maestri del Novecento. Poi è anche il più lontano, il più antico, il più enigmatico. Guarda le cose con lo sguardo impersonale di un greco.