“Da Auschwitz non si può guarire, dalla malattia di Auschwitz mai nessuno si è ripreso”
Nel culto ebraico, il kaddish è una breve preghiera composta da piccole formule di lode a Dio in lingua aramaica. Ricorre spesso durante le orazioni giornaliere e viene recitata anche in suffragio dell’anima di un parente. La prima parola di questo Kaddish per il bambino non nato è “No!”. È così che il narratore, uno scrittore ebreo ungherese di mezz’età, György Köves, già presente nei due precedenti romanzi della trilogia kertésziana, risponde a un conoscente che gli chiede se ha un figlio. È la stessa risposta data alla moglie (ora ex moglie) quando, anni prima, lei aveva espresso un desiderio di maternità. La perdita, l’anelito, il rimpianto che tormenta gli anni tra i due “no” dà luogo a una delle meditazioni più eloquenti mai scritte sull’Olocausto. Mentre il narratore si rivolge al bambino che non si è sentito di mettere al mondo, introduce il lettore nei labirinti della sua coscienza, drammatizzando i paradossi che accompagnano la sopravvivenza alla catastrofe di Auschwitz. Il terzo e ultimo romanzo della trilogia dell’“essere senza destino” di Kertész nella quale il Premio Nobel esplora la possibilità di continuare a vivere a dispetto dell’orrore della storia.