"Così lei pensa che Mao sia una specie di dio" disse lui mentre si sforzava di masticare un boccone troppo grande di zuppa di cotenna.
"Non ho capito un accidente" dissi.
Lui ingoiò, si sistemò sul naso con aria professorale un paio di occhiali da vista spessi mezzo centimetro e ripeté: "Così lei pensa che Mao sia una specie di dio."
"Più o meno. Ho visto gente inginocchiarsi davanti alla sua statua."
Fu compiaciuto dalla mia risposta. "Ha compiuto miracoli, sa?" disse.
Si presentò, ci strinse la mano e disse che era la terza volta che veniva in visita a Shaoshan.
"L’autobus andato fuori strada a Guangzhou?" disse Celia.
"Mica solo quello. E poi quello fu a Chongqing."
"Non era stato a Shenzhen?" domandai.
"A Chongqing."
"Non posso contraddirla."
"Mao ha fatto molto di più. Ha guarito im alati, ha salvato i raccolti invocando la pioggia, ha risuscitato anche un morto."
"Dove?" disse Celia.
"Di preciso non me lo ricordo. Nel sud, credo. Lo sapeva mia madre, ma purtroppo è morta."
Shaoshan, provincia dello Hunan, una primavera di fine millennio: l’autore va in viaggio nel paese natale di Mao Tse Tung accompagnato da Celia, la sua interprete cinese ventiduenne. Lungo il percorso incontrano diversi assurdi personaggi: ciascuno è, a suo modo, il simbolo delle contraddizioni e del degrado della nuova Cina; sospesa tra i miti del passato e le tentazioni del modo di vita occidentale.