Un testo inedito su In punta di penna e le opere di “intrattenimento” di Yukio Mishima, ovvero come (ri)avvicinarsi a Mishima attraverso opere diverse rispetto a quelle stabilite dal canone, per affrontare uno scrittore impossibile da ignorare, ripartendo da zero. A cura di Alessandro Clementi degli Albizzi, traduttore del romanzo In punta di penna.

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Difficile poterlo affermare prove alla mano, ma piace pensare che quando nel 1991 la casa editrice Chikuma iniziò proprio con In punta di penna la pubblicazione nella sua collana tascabile dell’indice delle opere cosiddette di “intrattenimento” di Mishima (se vogliamo ricorrere alla definizione oggi più diffusa), l’iniziativa sia stata accolta da un senso di sollievo generale. E questo perché fu come restituire Mishima Yukio al pubblico, mentre nello stesso tempo il pubblico veniva restituito a Mishima Yukio.

L’operazione proseguì con Nikutai no gakkō (del ’63, tradotto da Carlotta Rapisarda con il titolo La scuola della carne), storia d’amore tra una donna divorziata di nobili origini e un barman rude e ombroso; con Ai no shissō (La folle corsa dell’amore, sempre del ’63), anche qui storia d’amore tra un umile pescatore lacustre e una giovane impiegata in una moderna fabbrica di macchine fotografiche sulla riva opposta; con Han-teijo daigaku (L'università delle infedeli, del ’66) raccolta di consigli – o materie, quella “dell’adulterio”, “del disprezzo”, “dell’omosessualità”, “della chirurgia plastica”, ma anche “della nutrizione”, “dell’economia” ecc. – per offrire punti di vista alternativi e soprattutto sollievo psicologico (così lo definì un critico dell’epoca) alle lettrici maritate; e poi raccolte di saggi, dall’autobiografia, al diario di viaggio, ad argomenti ghiotti per le lettrici del tempo come il matrimonio e quello che lo segue/precede. Fino ad arrivare al 1998 e a quell’Inochi urimasu (del ’68, tradotto da Giorgio Amitrano con il titolo Vita in vendita) che nell’estate del 2015 sarà destinato a creare in Giappone un caso editoriale, registrando un picco di vendite improvviso che – cito dai giornali – costrinse la casa editrice a un ordine di ristampa di ben settantamila copie nel solo mese di luglio. Il formato grafico della collana, comune e riconoscibile, aiutò poi il romanzo a dare la spinta finale al successo dell’iniziativa.

Non da subito, certo, ma a poco a poco, complici anche dettagli paratestuali come le coloratissime copertine dell’incisora Yamamoto Yōko (reduce dell’enorme successo riscosso dalla copertina del romanzo di Yoshimoto Banana Tsugumi, del 1989) e le intelligenti e invoglianti fascette fatte stampare dalla casa editrice, o strategie di marketing come gli spazi speciali predisposti nelle librerie, tutto contribuiva a far percepire lo scrittore Mishima come qualcosa da cui non c’era più bisogno di sentirsi intimoriti. Le fascette di cui sopra, anche loro multicolori e con un morbido effetto amanuense (che replicava i biglietti scritti a mano dai commessi che suggeriscono le ragioni per l’acquisto, e che chi ha esperienza di librerie giapponesi conosce bene), presentavano le opere dicendo “Ma Mishima ha scritto anche romanzi così?!” (In punta di penna), “Un’agilità di lettura che tradisce l’immagine dell’autore” e “Ah se solo lo avessi scoperto prima!” (Vita in vendita), o ancora “Possibile che sia un romanzo di cinquant’anni fa? Mai avrei immaginato un Mishima così cool” e “Certo le grandi opere sono le grandi opere, ma ora è questo il Mishima che mi va di leggere” (La scuola della carne).

Ancora prima del caso creato da Vita in vendita (sul sito dedicato si parla ad oggi di più di 320.000 copie vendute), la collana aveva già un suo pubblico di appassionati, e sicuramente è stato proprio In punta di penna a dare il via già da subito alla modalità del passaparola, stavolta tra i fan di un cantautore di grande successo di nome Ozawa Kenji che almeno in un’intervista aveva pubblicamente dichiarato il suo debito letterario verso quest’opera, esempio in cui il ritmo (e il groove) interiore dell’autore viene riflesso direttamente nella scrittura[i]. Ozawa verrà nuovamente cooptato per l’edizione speciale di In punta di penna uscita nell’ottobre del 2020 all’interno delle celebrazioni per il cinquantenario dalla morte dello scrittore, per scrivere un breve saggio stampato direttamente sulla fascetta da lui stesso disegnata. Ozawa non è un cantante qualunque: cresciuto in una famiglia di intellettuali, laureato in lettere nella più esclusiva università del Giappone, dopo l’esperienza in un paio di gruppi tenuti in palmo di mano da critica e pubblico, aveva appena iniziato una delle carriere musicali e di paroliere più brillanti di quegli anni novanta, coniugando nelle sue canzoni intrecci di stili a orecchiabilità, e soprattutto con testi di un’intellettualità non ostentata, capace di armonizzarsi alla leggerezza richiesta dalle tribù che popolavano le zone più frequentate dai giovani, il quartiere di Shibuya a Tokyo in testa. Esattamente come il Mishima che i lettori “avevano voglia di leggere in quel momento”. Il consiglio di Ozawa poteva essere indifferentemente raccolto da studenti universitari o ragazzi e ragazze già inseriti nel mondo del lavoro, ma di certo riportava In punta di penna all’interno di un pubblico della fascia di età per la quale era stato prodotto. Più in generale, la possibilità di (ri)avvicinarsi a Mishima attraverso opere diverse rispetto a quelle stabilite dal canone, non solo liberava quello che è forse lo scrittore in Giappone più controverso del dopoguerra dalle sovrastrutture che si erano accumulate su di lui mettendone in luce lo straordinario eclettismo, ma soprattutto offriva al lettore la sensazione di tornare a uno stato di innocenza, di affrontare uno scrittore impossibile da ignorare, ma ripartendo da zero.

Ad aggiungere valore all’esperienza c’era poi il fatto che tali opere di “intrattenimento” avevano un autore del calibro di Mishima a monte, come ben dimostrano ad esempio in In punta di penna l’eleganza dello stile e un intreccio elaborato, memore certamente della tradizione del romanzo epistolare del XVIII secolo, Le relazioni pericolose di Choderlos de Laclos in testa (da cui viene presa in prestito anche una specularità dei personaggi, con una coppia matura che trama ai danni di una coppia di giovani, all’interno delle quali si sviluppano rapporti incrociati dalle evidenti somiglianze, anche se in chiave farsesca).[ii]

 

Un trait d’union essenziale di quasi tutte le opere della collana è l’essere state serializzate su media a grande diffusione, a puntate su quotidiani ma soprattutto su riviste maschili (come «Shūkan Playboy» [Playboy settimanale]) e femminili (come «Fūjin kurabu» [Il club delle donne], o «Mademoiselle»), quanto di più lontano dal formato di rivista strettamente letteraria che ospitava le opere “serie” su cui gli addetti ai lavori si giocavano la partita dell’agone letterario. Un formato che imponeva quindi di divertire, e nello stesso tempo lasciava libero Mishima di stuzzicare, blandire, posare, dileggiare, irritare in quella modalità che attorno alla sua figura aveva creato un marchio di fabbrica ben conosciuto all’epoca, un gioco a cui il pubblico si prestava volentieri ma che proprio per la sua natura di immediato consumo era rimasto relegato agli anni che gli avevano fatto da contorno, senza trasmettersi alle generazioni successive. Era anche un formato in cui ad avere voce in capitolo non era più solo il lettore maschio, acculturato, membro esclusivo dell’élite intellettuale, ma una platea vasta e senza distinzioni di genere, senza blasoni, senza prerequisiti richiesti: un Mishima di tutti e per tutti.

Il quale, già dai primissimi anni della sua carriera, non si era mai mostrato particolarmente schizzinoso: il suo primo romanzo su una rivista femminile (in questo caso il mensile «Fujin gahō» [Rivista illustrata per la donna], nato nel 1905 e attualmente la più longeva rivista femminile in Giappone) è Koi to ribetsu to (L’amore e la separazione, del 1947), e in complesso saranno ben ventiquattro le opere pubblicate su riviste femminili, inclusi racconti e pièce teatrali. La cosa non deve stupire se pensiamo che tra la fine degli anni cinquanta e a cavallo dei settanta le riviste di consumo furono “il” media per eccellenza, in particolare nel loro spigliato formato settimanale, che in quanto a vendite già nella prima metà degli anni sessanta aveva spodestato il più ortodosso formato mensile. Tra il 1956 (anno di pubblicazione del primo settimanale in assoluto, «Shūkan Shinchō» [Shinchō settimanale]) e il 1964, le riviste vendettero più dei libri, e ancora nel 1970, anno della morte di Mishima, i ricavi erano quasi alla pari: 210,1 miliardi di yen per le prime contro i 224,6 dei secondi.[iii]

La televisione, spinta da eventi come le olimpiadi di Tokyo del 1964, aveva intanto raggiunto nel 1967 quota 20 milioni di abbonamenti, eppure l’unica apparizione volontaria di Mishima in video si limitò a un programma dell’emittente TBS (Gendai no shuyaku, “I protagonisti d’oggi”), nell’estate del 1967, per non parlare della sua completa assenza dal pur redditizio filone delle pubblicità.

Mishima invece si servì delle riviste e le riviste si servirono di Mishima, impossessandosi quasi in esclusiva della visibilità di un uomo che faceva dell’apparire un suo marchio di fabbrica, senza distinzioni tra pubblico maschile o femminile.

Il settimanale maschile «Heibon Punch» testimoniò un picco di popolarità del personaggio Mishima nel 1967 attraverso un sondaggio che coinvolse la principale fascia dei suoi lettori, studenti maschi tra i diciotto e i ventisei anni: “All Nippon Mister Dandy”. Il “dandy”, da ricercare in ogni categoria della società, a coprire atleti, cantanti, attori, intellettuali e politici, secondo la proposta della rivista, era colui che possedeva “quella qualità maschile che pur mantenendosi classica non perde mai il senso della novità”. Dopo sei settimane di votazione e più di centomila voti scrutinati, Mishima si piazzò primo davanti a personaggi del calibro dell’attore Mifune Toshirō (secondo), il regista Itami Jūzō (terzo), i fratelli Ishihara (rispettivamente quarto Shintarō, lo scrittore, e sesto Yūjirō, la stella del cinema), ma anche eroi del baseball come Nagashima Shigeo (ottavo), segnando un risultato che se da un lato lasciò il nostro abbastanza indifferente, dall’altro confermava (al di là di quanto rigore sia stato effettivamente speso nello spoglio delle schede) la vera qualità richiesta a un “dandy”: l’ampiezza dell’audience e l’interesse che era capace di stimolare.[iv]

Sempre rimanendo negli anni che ci interessano, quelli cioè che coincidono con la serializzazione del romanzo, poco prima, nel novembre 1966, era stata date alle stampe la sua collaborazione con il fotografo Yatō Tamotsu: Taidō – Nihon bodibirudaa-tachi (La “via” del corpo - Body-builder giapponesi), nella cui introduzione Mishima proclamava il valore culturale di un nudo maschile e prorompente come unica modalità di espressione fedele del sé, in un’epoca in cui all’uomo giapponese erano stati sottratti abiti tradizionali ma anche solidità di pensiero e di principi. La figura muscolosa, oleata e villosa del corpo di Mishima, con il rigonfiamento del pene accuratamente evidenziato da uno striminzito fundoshi, il tradizionale panno annodato che adempie alle funzioni dell’odierna mutanda, fu rimbalzata per la prima volta (un nudo maschile!) sulle riviste femminili, alimentando sondaggi tra le lettrici quasi rivoluzionari per l’epoca.[v]

Il fenomeno di massa rappresentato da Mishima soprattutto nella seconda metà degli anni sessanta è efficacemente riassunto nelle parole del sociologo Takeuchi Yō: “In un periodo in cui il livello di istruzione si alzava e le riviste si diffondevano sempre di più, era nata una cultura di mezzo che non trovava più posto nella tradizionale contrapposizione tra cultura intellettuale e cultura popolare. A differenza degli intellettuali che si proponevano di istruire la massa, Mishima incarnò una nuova forma di intellettuale che metteva in mostra la sua stessa figura mescolandosi alla massa”.[vi]

 

In questo filone, In punta di penna venne inizialmente pubblicato a puntate tra il settembre 1966 e il maggio 1967 su «Josei jishin» (un nome che tradotto letteralmente suonerebbe come “La donna in se stessa”, a cui noi preferiamo “Donna donna”), un settimanale che proprio nel 1967, quando dalle sue copertine venne lanciato il boom della minigonna, ebbe una tiratura inimmaginabile per una rivista di oggi: 850.000 copie.[vii] Il bacino di lettrici era individuato nelle ragazze tra i venti e i venticinque anni, e quindi nell’età in cui – per l’epoca – la questione del matrimonio assumeva importanza capitale. Lettrici che in genere, proprio come la nostra Mitsuko, erano parcheggiate in una ditta in attesa di marito: una OL, cioè “office lady”, termine ancora oggi normalmente utilizzato e che proprio «Josei jishin» aveva imposto sul precedente BG (“business girl”).

Di cosa voleva leggere una OL del 1966/67? Se facciamo riferimento ai contenuti della rivista, di matrimonio, di amore (romantico), e di come regolarsi con il sesso, fattore legato a doppio filo con il matrimonio.

Il matrimonio era in fondo l’argomento più semplice, perché stante la premessa della sua assoluta necessità nel percorso di vita di una ragazza, ed escludendo i suoi aspetti di convenienza che spettavano alle famiglie coinvolte, alle riviste restavano quelli di gestione delle economie familiari (anche in vista dell’evento) e prettamente consumistici: molti di questi, la cerimonia, gli acquisti per la casa, gli elettrodomestici, appaiono evidentemente all’interno del romanzo.

L’amore “romantico”, che in parole povere coincideva in teoria con la libertà di scegliersi il partner, era un concetto gonfiatosi a dismisura nell’immaginario comune e spinto dagli uffici di comunicazione del GHQ (l’autorità d’occupazione americana che fino al 1952 aveva disegnato le fondamenta di quello che doveva essere il Giappone del dopoguerra) per contrastare uno dei cardini dell’impostazione anteguerra, cioè quello del matrimonio combinato e finalizzato alla creazione di un nucleo sociale facente capo a un unico capofamiglia plenipotenziario che replicava in piccolo la struttura in cui un Imperatore-padre accudiva i suoi Sudditi-figli. Anche solo per le ragioni appena espresse, insomma, un affare tutt’altro che secondario.

A livello popolare era dilagato a partire dal 1958, quando cioè l’erede alla corona imperiale Akihito si fidanzò con la “comune cittadina” Shōda Michiko, futura imperatrice, dando il via a uno dei fenomeni di costume più potenti del dopoguerra, il “Micchi-boom” (da leggersi micci, contrazione di Michiko). Servizi fotografici, reportage, sondaggi, scontri di opinionisti incentrati su Micchi furono per molti anni il cavallo di battaglia delle pagine dei settimanali femminili, che proprio dalla capitalizzazione di questo evento trassero la loro successiva fortuna: la storia d’amore al vertice della piramide sociale giapponese autorizzava ora anche le giovani donne a sognare.

Mishima avrà modo di esprimersi su questo punto anche all’interno della stessa «Josei jishin»,[viii] ma in rispetto del formato toccherà l’argomento in termini molto più leggeri e fruibili, nonché ironici, come ad esempio nella lettera della ragazza a Maru Toraichi (Lettera per ammazzare il tempo da chi ha tempo da ammazzare), che dietro alla spinta romantica non riesce a nascondere l’interesse a trovare un marito che la faccia fuggire da una provincia in cui si sente evidentemente stretta, o nella confessione sulla ricerca di un partner adeguato in Lettera su questioni personali, dove a parlare è più di ogni altra cosa l’amor di sé.

Infine, il sesso. Nella lotta per la conquista di un marito, la verginità era tradizionalmente una delle armi più potenti in possesso della donna, e concedersi a un uomo prima di aver ottenuto delle garanzie sulle sue intenzioni poteva voler dire bruciarsi tutte le possibilità. Al contrario, lasciar intendere di essere disposti al matrimonio – come Takeru candidamente confessa in Lettera per una proposta di matrimonio – poteva essere un’esca allettante per convincere una donna a concedersi. Mishima aveva già scritto quattro romanzi su donne che si mantengono illibate fino al matrimonio,[ix] ma proprio in quegli anni su «Josei jishin» c’erano evidentemente le condizioni per poter cambiare registro. Pochi anni prima di In punta di penna aveva qui ripubblicato un racconto breve, Ame no naka no funsui (del ’63, tradotto da Maria Teresa Orsi con il titolo Fontane sotto la pioggia) che racconta il momento della separazione di due ragazzi, Akio e Masako, per volere del primo. L’elemento importante è che tutto ciò avviene dopo che tra i due il sesso è stato consumato, accompagnato dalla convinzione di Akio che il suo comportamento crudele avrà la funzione di rito di passaggio al mondo adulto. Le lacrime di Masako si sommano a quelle delle fontane (tra l’altro, con iconoclasta ironia da parte dell’autore, le stesse del monumento eretto accanto ai giardini del palazzo imperiale in onore del fidanzamento/matrimonio tra Akihito e Micchi, emblema stesso dell’amore “romantico”) e a loro volta a quelle della pioggia che cade; Mishima però salva la dignità della ragazza scollegando del tutto le lacrime dalla situazione creatasi e lasciando Akio senza appigli per poter dir compiuto il suo passaggio all’età adulta.

L’episodio viene parodiato all’interno di In punta di penna quando Mitsuko scrive a Takeru della coppia piangente dentro al bar (Lettera per comunicare una gravidanza), stavolta in termini molto più realistici, ma ad esempio anche il modo in cui Mitsuko insiste a tenere staccati gli esiti del sesso a quelli di un fidanzamento ufficiale non fa che rispecchiare nei contenuti la quantità di dibattiti e sondaggi sull’accettazione della possibilità di un sesso prematrimoniale che avevano iniziato a occupare sempre più spazio su una rivista femminile come «Josei jishin».[x]

Un ultimo elemento del romanzo che preme citare, infine, è quello del teatro, a Mishima particolarmente caro. Per la natura stessa dello scambio epistolare l’azione si svolge esclusivamente attraverso i dialoghi dei protagonisti, esattamente come in una partitura teatrale “in differita”. Se non altro sulla base dell’enorme mole di materiale scritto,[xi] la critica si sta ultimamente mostrando disposta a considerare Mishima un “uomo di teatro”, se non addirittura un “uomo di scena”[xii] per come potenti elementi teatrali entrano in tanta altra parte della sua produzione più genuinamente letteraria, e In punta di penna può a ragione essere considerato un esempio calzante. È facile però accorgersi che quello descritto da In punta di penna è poco più di un teatro di puro intrattenimento, fatto di “prime al teatro P” in cui la cosa che dà lustro è riuscire a trovare i biglietti, un’improbabile “manicure per le unghie dell’anima”, un luogo dove reclutare possibili amanti tra gli attrezzisti, gonfio di scene grottesche in cui eroine disperate ottengono il massimo dell’empatia mentre fanno cadere gocce di profumo sul pianoforte. Un teatro in cui anche chi dovrebbe essere più qualificato a parlare, cioè il nostro Takeru, di base smonta le scene e stacca biglietti, e quando non tiene a freno la sua verve retorica non fa che strapparci un sorriso imbarazzato. Eppure, per Mishima il teatro era una cosa seria, forse – azzardando – la più seria di tutte, sia quello di stampo classico (kabuki e nō), sia quello di stampo moderno, il più volte nominato “nuovo teatro” (cioè il teatro di matrice occidentale). Proprio l’anno prima, il 1965, aveva appena visto la luce quella che è forse la più citata tra le opere di teatro di Mishima, nonché considerato uno dei maggiori capolavori del Novecento giapponese, Sado kōshaku fujin (tradotto da Lydia Origlia con il titolo Madame de Sade). Sempre nel 1966, ad aprile, era uscita la versione cinematografica di Yūkoku (tratto dall’omonimo romanzo del ’61 tradotto da Michela Morresi con il titolo Patriottismo), di cui Mishima era sceneggiatore, produttore, regista e interprete, con un successo strepitoso di critica e di pubblico per una pellicola da cinema d’essai, che nello stesso tempo ci appare anche come un’opera di teatro nō trasposta sullo schermo.[xiii] E allora viene il sospetto che anche noi si stia cadendo in un tranello, e che tutto ciò che come il teatro in questo romanzo passa attraverso il filtro della boutade (televisione, matrimonio o sesso, per limitarci agli elementi sopra esposti) sia invece questione della massima serietà per Mishima. Lo stesso tranello messo in luce dall’usuale perspicacia di Shibusawa Tatsuhiko,[xiv] che nel corso di una conversazione letteraria così risponde a Deguchi Yūkō,[xv] il suo interlocutore:

Deguchi: (...) Che poi lui ha scritto un mucchio di opere di intrattenimento.

Shinbusawa: Eh sì.

D: Come la “Virtù vacillante”.[xvi]

S: Quello con Kurakoshi Setsuko?

D: Esatto. Con quell’incipit che come fai a non dire straordinario...

S: L’incipit che dice “Se posso permettermi di iniziare da subito con un argomento sfrontato...”[xvii]

D: Sembra che voglia prendere per i fondelli chiunque pensi che effettivamente sia “un argomento sfrontato”.

S: Eh, quello è il romanzo filosofico francese.

D: Il Diciottesimo secolo?

S: Sì. Laclos, Sade, Voltaire.[xviii]

 

Chissà che un giorno non prenderemo molto più sul serio i romanzi di “intrattenimento” di Mishima Yukio, quanto ad esempio prendiamo sul serio un Candide che, come si sa, il suo autore aveva definito una... coïonnerie.

 

NOTE


[i] Sakka, shijin-tachi no kokoro o fureta “Watashi ga bun o mananda hon” kōkai shimasu (“I libri che mi hanno insegnato a scrivere” e che hanno lasciato una traccia nel cuore di scrittori e poeti), “Olive”, settembre 1992, N.237, p. 126.

[ii] Le relazioni pericolose venne tradotto in giapponese nel 1947 da Ibuki Takehiko, nella prima ondata di traduzioni di opere straniere seguita alla fine della censura del periodo di guerra (in genere opere del passato, per la possibilità di eludere pagamento dei diritti in un momento di scarsezza di capitali), e deve essere stato letto voracemente da Mishima, se appena due anni dopo aveva già pubblicato un saggio sul romanzo galante francese dal titolo Ingin bungaku (Letteratura di buone maniere) sulla rivista «Sekai bungaku» (“Letteratura mondiale”, 1949, n.33).

[iii] Dati elaborati dal Shuppan kagaku kenkyūjo (Research Institute of Publication).

[iv] Shiine Yamato, Kanzen ban Heibon Panchi no Mishima Yukio (Il Mishima Yukio di «Heibon Punch» – edizione completa), Kawadeshobo, Tokyo, 2012, p.92 e 100.

[v] Ibid. p. 93, 185 e 373-75.

[vi] 'Sengo nihon' ni tsukiai shōmō (Adeguarsi al Giappone del dopoguerra, e venirne consumato), Yomiuri shinbun, 3/11/2020, p 13.

[vii] Al di là delle copie stampate, i dati ufficiali del Japan Audit Bureau of Circulation, per il 1966, anno di inizio pubblicazione di In punta di penna, registrano 652.000 copie effettivamente vendute.

[viii] Ad es., in Dōbutsu no owari (La fine dell’animale), in Owari no bigaku (Estetica della fine), pubblicato originariamente su «Josei jishin» tra il febbraio e l’agosto 1966, e ora inserito assieme ad altre raccolte di saggi in Shin ren’ai kōza (Nuove lezioni sull’amore), Chikuma bunsho, 1995.

[ix] Si tratta di Koi no miyako (La città dell’amore, pubblicato nel 1953 sul mensile femminile «Shufu no tomo»), Megami (La dea, pubblicato nel 1954 sul mensile femminile «Fujin Asahi»), Nagasugita haru (Una primavera troppo lunga, pubblicato nel 1956 sul già citato «Fujin kurabu»), Ojōsan (La fanciulla, pubblicato nel 1960 sul mensile femminile «Wakai jōsei»).

[x] Sull’argomento, cfr. Takeuchi Kayo, «Josei jishin» no naka no Mishima Yukio Letter kyōshitsu – josei-shi rensai to iu heisō (In punta di penna in «Josei jishin» - l’andamento in parallelo delle pubblicazioni sulle riviste femminili), Gobun (The journal of japanese language and literature) 156, 2016-12, dove per “andamento parallelo” si intende la straordinaria prolificità di opere per l’intrattenimento in contemporanea alla pubblicazione di alcune tra le opere più controverse e ideologicamente orientate dello scrittore.

[xi] Carolina Negri, nel suo “Un saggio sul teatro scritto in camerino”. Mishima Yukio e la morte del ‘Teatro ideale’ (“Il Giappone”, vol. 33, 1993, p.128) parla di 1.000 pagine scritte, tra drammi in più atti, atti unici, 8 Nō moderni, più vari libretti per balletto e operetta.

[xii] Virginia Sica in Se Mishima calca ancora le scene..., in «Sipario», n. 730-731, 2011, p. 42.

[xiii] Cfr. Matteo Casari, “Yūkoku|Patriottismo: un altro nō moderno”, all’interno della conferenza “Mishima Yukio e l’atto performativo: drammaturgie di un artista”, La Soffitta | DAMSLab - Dipartimento delle Arti, Bologna, 2021.

[xiv] 1928-1987, suo amico nonché critico, scrittore, traduttore e tante altre cose.

[xv] 1928-2015, francesista e amico di una vita di Shibusawa.

[xvi] Bitoku no yoromeki (1957), tradotto con questo titolo da Lydia Origlia.

[xvii] Di seguito l’incipit completo (traduzione del curatore): “Se posso permettermi di iniziare da subito con un argomento sfrontato, dirò che la signora Kurakoshi, dall’alto dei suoi appena ventott’anni, traboccava di una sensualità a dir poco innata. Cresciuta in un’ottima famiglia e sottoposta a una rigida educazione, Setsuko non aveva nulla che spartire con tutto quanto avrebbe potuto funzionare da surrogato per quella sensualità, che fosse ambizione di studio, conversazione brillante o letteratura, ed è quindi forse più corretto dire che così, con spontanea meticolosità, si ritrovò preda di un destino che la condannava a galleggiare alla deriva in un mare di sensualità. Chi fosse stato amato da una donna così poteva ben dirsi un uomo felice.”

[xviii] Mishima Yukio Seikimatsu dekadansu no bungaku (MY Letteratura decadente di fine secolo), in Shibusawa Tatsuhiko, Mishima Yukio oboegaki (Appunti su MY), Chuokoronsha, 1986, pp. 222-223.

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