Quando per la prima volta ho posato gli occhi sulla proposta di pubblicazione del libro di Shoji Morimoto La rivoluzione del fare nulla, la mia reazione è stata piuttosto disinteressata: nessuna voglia di farmi spiegare da un giapponese i segreti della vita delle cicale e il magico potere del riposo. L’otium, quello rigenerante, ce l’avevano già insegnato i latini, non servivano consigli scontati sul non fare nulla in salsa giappo. Anzi, la mia vita indaffarata mi spingeva a nutrire una certa avversione verso la categoria dei nullafacenti impenitenti e, sulle spalle altrui, felici.
Tuttavia, l’amplissima rassegna che a Morimoto aveva riservato la stampa internazionale (ne hanno scritto tutte le testate più prestigiose, dal “New York Times” al “Financial Times”, dal “The Guardian” a “The Times”, al “The Independent”) e le straordinarie vendite registrate fin dalla prima settimana di uscita dell’edizione UK, mi ha persuasa a dedicargli un po’ di tempo e un minimo di attenzione.
L’inizio della lettura è stata una rivelazione: quanto mi sbagliavo! Le prime impressioni a volte sono davvero fuorvianti!
Mi sono bastate poche pagine per comprendere che il guizzo di “lucida follia” di una persona ordinaria si era trasformato in un gesto di ribellione a ciò che l’economista premio Nobel Claudia Goldin definisce “lavoro avido”, avido di tempo innanzi tutto. La scelta di Morimoto, la storia e gli incontri paradossali, sconvolgenti e persino teneri che ne sono seguiti, non sono un elogio al non fare, ma al fare solo ciò che conta per instillare vita ai giorni, per dare un valore non contabilizzato al tempo, e così riappropriarsene. Sono un atto di fuga dal presenzialismo, dall’autovalutazione e dalla svalutazione, dalla spuntatura delle caselle degli obiettivi, dalle pompose dichiarazioni di mission, dagli appelli ipocriti al lavoro di squadra, dall’idea che la dignità faccia rima solo con produttività e si misuri in soldi.
Man mano che mi immergevo nella lettura, tra mie esclamazioni di “ma non è possibile!” alternate a “eppure, ha ragione!” (non che Morimoto sia interessato al fatto di avere o meno ragione, non ha nessuna intenzione di ergersi a guru, di fare l’attivista o il filosofo, lui, semplicemente vive!), mi sono trovata avvolta in un cumulo di dubbi: e se fossi io a stare dal lato sbagliato della storia? Se le richieste assurde che Morimoto riceve quotidianamente, fossero lì lì per emergere, a un passo anche da me? Se le storture, le disfunzioni sociali di cui sono figlie, non fossero relegate al Giappone, ma ci fossero più vicine di quanto non osiamo immaginare, o magari fossero già presenti, ma sotto mentite spoglie per non dare nell’occhio? Se le crisi esistenziali da cui scaturiscono fossero dietro l’angolo? Se anche io avessi bisogno di cercare in un estraneo un amico che mi accompagni a ripercorrere le strade della mia infanzia?
Ecco, se Morimoto, con questo suo memoir – letterariamente povero di orpelli, ma ricco di senso - facesse risuonare le mille voci di queste e molte altre domande, se ci persuadesse che tutto sommato ciascuno di noi potrebbe rischiare di dare forma, a modo suo, al doppio salto carpiato che ci permetta di uscire dalla ruota del criceto e di riportarci dal lato umano della storia, avremmo raggiunto l’obiettivo.
Francesca Cristina Cappennani
Editor non-fiction Feltrinelli Editore
La rivoluzione del fare nulla di Shoji Morimoto
Stanco delle lamentele del suo capo che lo ritiene una sorta di “posto vacante permanente”, Shoij Morimoto, dopo anni spesi tentando di soddisfare le aspettative della società, si chiede se proprio il “fare nulla” possa avere un valore, anche se non misurabile in produt…