Come Non dirmi che hai paura è diventato un film. Lo racconta Giuseppe Catozzella.

Ho sempre avuto l’impressione – sempre – di non essere stato io a scrivere Non dirmi che hai paura, ma che Samia l’abbia scritto di suo pugno attraverso di me, utilizzando le categorie della tradizione drammaturgica, epica e letteraria occidentale e del mondo arabo per incidere la sua storia come un simbolo, per stare lì e valere per tutti, non soltanto per chi migra ma anche, adesso, per chi guarda il film. Che l’abbia fatto per farci domandare cosa significhi morire in mare solo per aver cercato di diventare chi si è destinati a essere. Per aver cercato di diventare la persona che nel profondo sentiamo di essere.

Ho incontrato la storia di Samia Yusuf Omar il 19 agosto del 2012. Ero a Lamu, al confine tra Somalia e Kenya, stavo lavorando a quello che sempre di più immaginavo come un romanzo (l’idea iniziale era di farne un reportage), insieme a un ragazzo ex combattente del gruppo integralista armato Al-Shabaab; avevo conosciuto Alì, così si chiama, grazie a un amico che lavorava in una Ong di Nairobi, l’ex soldato voleva raccontare a uno scrittore occidentale la sua storia di ferocia e salvezza (quando l’ho conosciuto teneva i bambini di strada lontani dai gruppi armati, per quella stessa Ong).

Avevamo trascorso assieme due settimane quando, la mattina del 19 agosto, nella sala delle colazioni dell’ostello in cui alloggiavo la TV era accesa su Al-Jazeera English (il posto era semivuoto, io e un paio di coppie – da due anni gli Shabaab avevano preso a colpire e rapire anche i turisti, quindi Lamu si era svuotata, un paradiso con pochi dhow di pescatori locali che tagliavano il mare). Era l’anno delle Olimpiadi di Londra, che non avevo seguito per niente, essendo al lavoro con Alì. Tra i servizi di quella mattina ce ne fu uno, un solo minuto, in cui veniva intervistato il portavoce del Comitato olimpico somalo, lo seguii mentre imburravo una fetta di pane. Ricordo che quasi gridò al microfono che fine avesse fatto Samia Yusuf Omar. Aggiunse che per la Somalia non c’era possibilità, con la guerra e le Corti islamiche, di coltivare una schiera di atleti competitivi per le Olimpiadi, e ricordò la ragazza che avevano portato a quelle di Pechino del 2008: aveva il sogno di vincere quelle appena trascorse di Londra, e per inseguire il suo sogno, disse, aveva lasciato il suo Paese per raggiungere l’Italia, e invece era morta annegata in mare.

“Che fine ha fatto Samia Yusuf Omar?” Ecco: l’istante preciso in cui sentii nominare il mio Paese (ero uno scrittore italiano arrivato quasi a casa di quella ragazza a bordo di un aereo, con l’agio di qualche settimana di lavoro in Africa), il fatto che Samia fosse morta al largo del mio mare, che per lei s’identificava con la salvezza, in quell’istante seppi che avrei raccontato la sua storia in un romanzo. Non fu una decisione, fu arrendersi a un dato di fatto. Era il 2012 e di migrazioni, di morte in mare, di tratte africane (poi sarebbero state definite “del Mediterraneo centrale”) non si parlava molto.

Terminai il lavoro con Alì e tornai in Italia, e subito iniziai le ricerche su Samia. Avevo deciso di mettere in stand-by il romanzo su Alì (sarebbe uscito dopo Non dirmi che hai paura, con il titolo di Il grande futuro, le prime due parti della Trilogia dell’Altro, che si sarebbe completata nel 2018 con E tu splendi) e di contattare la sorella di Samia e chiunque potesse averla conosciuta. Avevo bisogno di mettere insieme quanti più dettagli possibile sulla sua vita reale, pur sapendo che sarebbe stato materiale necessario ma non essenziale, che solo la letteratura avrebbe potuto raccontare una storia in cui io vedevo la potenza di una tragedia antica: volevo che riecheggiasse in essa il mito arcaico. Furono necessari sette mesi, e l’aiuto di una mediatrice culturale somala, Zahra Omar (che mi fu presentata da Igiaba Scego, che aveva scritto un articolo sulla morte di Samia), perché la sorella Hodan accettasse di incontrarmi a Helsinki, dove era a sua volta migrata (in quei mesi nel frattempo incontrai una trentina di ragazzi e ragazze migranti, chiedevo loro di raccontarmi il Viaggio attraverso l’Africa e il mare: sapevo che avrei raccontato quello di Samia e dovevo capire cosa davvero fosse questo Leviatano di cui nel 2012 ancora non si parlava, quali sentimenti ed emozioni fossero in gioco: fu allora che capii davvero di trovarmi di fronte a un’epica contemporanea, come poi scrisse Erri De Luca a proposito del romanzo: quei ragazzi mettevano in gioco tutto ciò che avevano, cioè la loro stessa vita, pur di cercare di diventare sé stessi).

Ricorderò sempre la prima giornata con Hodan, non riusciva a parlare, la voce si spezzava in gola per il pianto. Ricordo di aver pensato che non se ne sarebbe fatto niente, che mai nessuno avrebbe raccontato quella storia, provocava troppo dolore in chi aveva amato Samia. Così dissi a Zahra di interrompere quello strazio, ce ne saremmo andati, la missione finlandese era stata fallimento. Ma mentre infilavo le scarpe decisi di raccontare a Hodan di quella mattina a Lamu, del senso inesplicabile di responsabilità da cui ero stato colto, un senso di colpa inespugnabile, del fatto che fossi persuaso che raccontare la storia di sua sorella in un romanzo avrebbe cambiato la percezione, la consapevolezza sulle migrazioni, in Italia (non potevo immaginare che il romanzo sarebbe stato pubblicato in tutto il mondo). Avevo, senza neppure esserne consapevole, deciso che, nel romanzo, Samia avrebbe raccontato la sua storia con la sua stessa voce. Atto osceno (dare voce a una persona che non ero io e non c’era più), eppure sentivo che altra strada non c’era, come se dovesse essere una lettera da lei inviata post mortem al Paese in cui aveva trovato la morte (era in vigore la Bossi-Fini, i salvataggi in mare erano vietati per legge). Quello fu il momento reale in cui Hodan si convinse a condividere la storia della sorella. Passammo il resto dei giorni non più soltanto tra le lacrime, ma anche tra risate e racconti, ma quando tornai a casa capii che il materiale che avevo era sufficiente tutt’al più per un buon articolo di giornale, non per un’opera letteraria. Avevo alcuni dettagli così come li aveva raccontati Hodan (il numero e il nome dei fratelli, il nome della scuola frequentata, il genere di musica che Hodan cantava, una quantità di cose di questo tipo), ma i dettagli non fanno la letteratura. Serviva una trama – amici, nemici, passioni, timori, lacrime e coraggio, raccontare la vita di Samia come una tragedia greca – e soprattutto un’anima, uno spirito, una voce. Cercai la voce di Samia per mesi, come provando a sintonizzare una radio sulla frequenza giusta. Poi un giorno scrissi “La mattina che io e Alì siamo diventati fratelli…” e non mi fermai più; nei mesi della stesura fui certo che Samia mi avesse scelto e mi utilizzasse per raccontarsi.

Quello che venne fuori è ciò che poi per tutti coloro che hanno letto il romanzo è diventato lo spirito di Samia, il suo thymos e la sua psyché, come dicevano i greci: una ragazza fragile e determinatissima, un’eroina femminile potente e coraggiosa tanto quando Achille e Odisseo, persa eppure sempre in contatto con sé stessa. Oltre a tutto uno stuolo di personaggi letterari (su tutti il migliore amico Alì e la sua famiglia, e il fondamentalista Ahmed – ispirati ai racconti dell’ex Shabaab – oltre ai compagni del Viaggio) e una trama quanto più possibile epica (dai racconti della sorella avevo tre punti fermi: il fatto che Samia corresse, che fosse andata a Pechino nel 2008 e che poi fosse partita per l’Europa). E sono felice che quel lavoro letterario di resa dall’anima di ogni personaggio, reale o meno, sia stato rispettato nella trasposizione cinematografica.

Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella

Questo è un romanzo fatto di passi, passi che si allineano uno dopo l’altro, sempre più veloci, nonostante tutto. È la storia di Samia, una ragazzina di Mogadiscio che ha nel sangue la voglia di correre, e ogni giorno sfreccia per le strade della sua città insieme ad Al…