A cura di Raffaella Arpiani, autrice di Notte di luna con Van Gogh, l'analisi di un'opera di Munch che fa parte della mostra "Munch. Il grido interiore" a Palazzo Reale di Milano, attraverso un confronto con la tradizione a partire dal Rinascimento...
Nel suo De pictura del 1435, Leon Battista Alberti suggeriva agli artisti di inserire, tra i personaggi di un dipinto, un figurante con lo sguardo rivolto in fuori, verso gli spettatori, per fargli assumere il ruolo dell’ammonitore. Si trattava di un espediente tecnico molto efficace: il narratore silenzioso aveva infatti il compito di mettersi in collegamento con gli occhi di chi si trovava davanti all’opera, per attivarne la visione in forma complice. Lo sguardo lo estraniava dalla scena rappresentata, richiamando la nostra attenzione e creando così nel frattempo un gancio visivo utile per noi a entrare nella storia. I personaggi-ammonitori funzionavano cioè come dei presentatori o delle vallette nei dipinti, veri e propri facilitatori delle storie messe in scena.
I dipinti quattro-cinquecenteschi ne sono pieni. Talvolta si trovano ai lati del quadro, come se fossero una quinta teatrale personificata, con il corpo rivolto prospetticamente verso i protagonisti, al centro. Spesso sono figure minori, magari un angelo, ma in alcuni casi è l’artista stesso che, con un autoritratto, fa da testimone diretto e accorcia la distanza tra la scena e i sentimenti espressi sulla tela. Funziona come una firma autorevole e un gioco che i contemporanei colgono immediatamente. Due esempi per tutti. Il primo è uno straordinario angelo sorridente in primo piano ne La Lippina, di Filippo Lippi degli Uffizi del 1460-1465 circa. La bionda creatura angelica regge il piccolo Gesù con le braccia protese verso Maria, ma si distrae un attimo e si volta in fuori, per rivolgersi direttamente a noi, in quel momento quasi più importanti dell’azione che sta compiendo, con un sorriso che ci tocca nel profondo. Nel mio libro Notte di luna con Van Gogh c’è un intero capitolo dedicato a raccontare l’origine e l’incredibile e scandalosa storia d’amore che si cela o si rivela dietro i personaggi apparentemente puri di questo dipinto. La seconda opera, ora in mostra al Museo Diocesano di Milano, è idealmente imparentata con la prima, visto che ne è autore Sandro Botticelli, che di Filippo Lippi è stato allievo: L’Adorazione dei Magi del 1475 degli Uffizi. In quel caso è proprio il talentoso artista fiorentino autore de La Primavera, in piedi sulla destra, che ci invita a entrare nel teatrino che ha predisposto per il nostro sguardo e a introdurci tutti gli illustri presenti: l’intera stirpe de’ Medici e gli uomini della loro corte prestano infatti le sembianze al corteo dei Magi.
Dal Rinascimento in poi la lunga tradizione pittorica ha reiterato la messa in scena degli ammonitori, tanto che noi non ci facciamo nemmeno più caso. Poi arriva Edvard Munch, ora a Palazzo Reale a Milano con la mostra Il grido interiore. Anche nei suoi dipinti ritroviamo molto spesso almeno un personaggio rivolto in fuori, verso di noi, in primo piano, se non addirittura un intero gruppo di uomini e donne. C’è sempre almeno un personaggio che ci fissa o cerca i nostri occhi. Ne L’Urlo, in La morte nella stanza della malata, in Angoscia, in Pubertà, in Sera sul corso Karl Johan e in molti altri dipinti. Peccato che gli sguardi di quei personaggi siano spesso allucinati, sbilenchi, spaventati e incerti. E così Munch impiega i codici interiorizzati della pittura secolare, intanto che ci butta addosso drammi esistenziali destabilizzanti, modernissimi, che ci riguardano da vicino. Posti senza filtri di fronte a questi protagonisti, noi possiamo provare a scansarli, impacciati, ma vista la loro presenza ingombrante, di fatto è come assistere al disagio di qualcuno realmente presente davanti a noi, che non può lasciarci indifferenti. Ci angoscia, ci imbarazza, ci fa sentire inadeguati. Eppure lo comprendiamo benissimo, perché il malessere è anche nostro, lo conosciamo bene. Questa soluzione formale sarà un espediente tipico impiegato nel cinema espressionista di Fritz Lang e Murnau, ad esempio, e verrà usato anche dai pittori espressionisti tedeschi, eredi diretti delle coraggiose novità proposte da Munch.
Guardiamo La morte nella stanza della malata, per esempio. Sul fondo di un verde color smeraldo acquoso, steso in forma piatta sulla parete, che rende fredda, astratta eppure incombente la scena, tutti i personaggi sono isolati nel loro dolore. Sono evidentemente parte della stessa famiglia, ma questo non li aiuta a condividere lo strazio e il sentimento seppure simile che stanno sperimentando individualmente. È la legge dell’incomunicabilità, che ci condanna a restare chiusi dentro ciò che proviamo. L’angoscia, la paura, il senso di vuoto sono totalizzanti. Si assomigliano tutti, ma siamo costretti a viverli da soli, monoliticamente. Molti dei volti dipinti non hanno nemmeno le bocche per manifestare il dolore. Sono quelli dei familiari del pittore, anche quelli ormai scomparsi. La morte evocata dal titolo e sempre presente nella vita di Munch, in questo caso è quella dell’amata sorellina Sophie, scomparsa a causa della tisi a quindici anni, ma potrebbe essere la morte di un nostro caro. Il pittore si appoggia al muro, in secondo piano sulla sinistra, quasi cercando un riparo e un impossibile conforto nella sua ombra, come se il dolore stesso si fosse solidificato. Davanti a noi, invece, troneggia frontale e immobile la sorella maggiore Inger, con un abito nero a collo alto, che isola ancora di più il biancore ovale del suo viso. Spiccano le macchie color malva sul suo vestito, fiori paradossalmente ormai appassiti: la nostra vita fugace è destinata a sfiorire. Inger è l’unica con i tratti del volto riconoscibili, ma è priva di un’espressione. Troppo grande il dolore che prova. Sotto e di fianco a lei Laura Cathrine, la sorella destinata a una malattia psichiatrica invalidante e il fratello Peter Andreas, che sarebbe morto di polmonite a trent’anni. Sul fondo a destra, un’imponente poltrona da malati e da anziani, che ci volta le spalle, su cui probabilmente l’autore immagina la presenza ormai svanita della madre che ha perso quando aveva solo cinque anni. L’assenza di chi se ne è andato, resta, per sempre. Davanti a lei, prospetticamente ridotto, il padre, un uomo ormai rimpicciolito nello squilibrio e nell’ossessione.
Guardate come il pavimento pastoso sembri eccessivamente inclinato verso il fondo, quasi a ribaltarci addosso i personaggi e a farci scivolare in fuori la loro angoscia. Forse l’unica altra presenza che potrebbe creare un contatto visivo con noi – nessuno comunque, nemmeno all’interno dell’opera, ricambia lo sguardo dei presenti – potrebbe essere la figura rappresentata in quel quadretto laconicamente appeso sulla parete di fondo. Forse un parente lontano ormai defunto, forse una figura di spicco, forse un Cristo in linea con quel lettino singolo ormai vuoto, attorniato da bottigliette di farmaci e lenzuola inutilmente e dolorosamente bianche, sterilizzate e pure. Anche quel volto, tuttavia, risulta comunque troppo distante da noi per fornirci una qualche forma di conforto.
È questa la potenza della pittura di Munch. I suoi e i nostri sentimenti vengono messi in scena senza filtri edulcoranti e gridano tutta la loro necessaria urgenza per rivendicare uno spazio all’interno dei dipinti. È così che si apre l’arte del contemporaneo, quella che ci riguarda sempre più da vicino, come ammonitori albertiani, che non hanno più nemmeno bisogno di avere un viso o degli occhi dentro cui rispecchiarsi.
Raffaella Arpiani
Notte di luna con Van Gogh di Raffaella Arpiani
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Raffaella Arpiani
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