Un estratto da
Storia di un fiore, di Claudia Casanova
1 - La sposa
15 ottobre 1878
Il bouquet nuziale attende sul tavolo. Tutto è immerso nel silenzio. Oltre la finestra, le colline disegnano un drappo di colori all’orizzonte. Sono passati anni da quando Alba ha guardato questo paesaggio per la prima volta, la neve di allora è oggi una vallata di fiori azzurri e gialli, una veste semplice per una terra che non dimenticherà mai. È per questo che ha voluto sposarsi qui, nonostante il futuro marito abbia ottenuto un posto da giudice a Mérida. Per questo, e anche per le ragioni che serba nel suo cuore, ragioni che non potrà mai confessare. Contempla le valli che ha percorso instancabile, e lo sguardo si sofferma su Valdecabriel, nella Sierra di Albarracín. Il fiore bianco. Il bouquet tra le mani, infilate in sottili guanti di lino. Saxifraga alba.
“Sicura di non volere le rose, figliola?” le aveva chiesto suo padre.
“Le rose sono per le feste,” aveva risposto Alba. “E il tuo matrimonio non è una festa?” aveva replicato lui.
Sua madre non avrebbe mai fatto quella domanda, ma Mercedes de Cararach era morta, e da quando se n’era andata il mondo era cambiato. “Non ho più una madre,” si ripe12 teva Alba il giorno del suo funerale. Come se volesse convincersene, come se fosse troppo difficile credere che lei non c’era più. Ogni assenza ha bisogno di essere sancita, altrimenti finisce per essere semplicemente un vuoto.
Bussano alla porta; dev’essere suo padre, venuto per accompagnarla in chiesa. Eppure no, il sole non tocca ancora la metà del cielo: è troppo presto. La sposa si volta. Una ragazzina è in attesa sulla soglia. È una domestica, quasi una bambina, che alla sua vista si inchina impressionata, come se avesse davanti la regina María Cristina in persona. E con ragione: la bellezza placida di Alba Ruiz de Peñafiel sembra fatta apposta per la giornata di oggi. Indossa un vestito di seta color écru che ha destato scalpore in paese, perché la tradizione richiede che l’abito sia nero. Ma la modista che suo padre ha fatto venire da Madrid ha insistito sul fatto che la regina inglese si era vestita di bianco al suo matrimonio e che questo cambiava tutte le regole. La mantiglia è l’unico capo che attenua l’insolenza di quel colore chiaro: in broccato intessuto d’argento, come si conviene. Questa mattina Alba si è lasciata vestire senza degnare di uno sguardo i magnifici tessuti.
“Hanno portato questo per lei, signora,” dice la ragazzina, e posa sul tavolo una piccola borsa di velluto, prima di inchinarsi di nuovo e sparire.
Alba ripone con delicatezza il bouquet sul tavolo e si sfila il guanto della mano destra per accarezzare il velluto nero della borsetta. All’interno c’è un oggetto metallico, delle dimensioni di una mandorla. Sul velluto corre un ricamo dorato, linee semplici che disegnano un fiore. Ne segue lentamente il profilo. Mentre scioglie il nodo della borsa le tremano le dita. Non può farci nulla: il tocco del velluto risveglia in lei una serie di ricordi. “Non avevo mai visto un panciotto di velluto,” aveva detto una volta. Deglutisce, perché inconsapevolmente ha sussurrato tra sé la stessa frase, le sue labbra l’hanno ripetuta come se pronunciando quelle parole potesse evocare anche lui. Il piccolo ovale risplende ai raggi del sole. È d’argento, lucido come uno specchio, e ora si tinge del rosa dei suoi polpastrelli nudi. Un medaglione con un fiore intarsiato, un fiore semplice come quelli poggiati sul tavolo. Come il ricamo dorato. Saxifraga alba. “Bianca, come la tua pelle.” Le parole le riecheggiano nelle orecchie come se vi si posassero le labbra di lui.
Il medaglione ha un piccolo fermaglio, che si apre con un lieve scatto quando Alba lo preme. Ed ecco i suoi occhi, anche se la fotografia è in bianco e nero, mentre quelli di lui erano dell’azzurro cupo che ha il mare quando minaccia tempesta. L’argento nel palmo della mano brucia sulla pelle, al pari della minuscola immagine che la fissa dal medaglione. Alba non riesce a distogliere lo sguardo. Nonostante le lacrime che le inondano gli occhi, le scivolano lungo le guance e macchiano la seta preziosa del collo del suo vestito da sposa. Tutte le barriere che aveva eretto crollano. Dalla borsetta cade un rettangolo di carta, ripiegato con cura, carta sottile come quella che suo padre fa arrivare dall’estero, fabbricata da maestri italiani, per firmare i contratti importanti. All’interno si intravedono righe di una fitta grafia, elegantemente vergate. L’ultima lettera di Heinrich Willkomm.
Al pianterreno, la grande casa di famiglia è gremita di invitati che attendono la comparsa della sposa, il suono delle loro conversazioni sale fino a lei come il ronzio delle api di quell’estate.
2 - Teruel
Inverno 1875
Un manto bianco ricopre Teruel, solcato dai denti di pietra della muraglia. La ragazza respira a fondo l’aria gelida e pura, e stiracchia braccia e gambe, anchilosate dopo il lungo viaggio. È il primo inverno che trascorrono lì, il cielo che li accoglie è di un grigio profondo venato di marmo. Il resto della famiglia scende lentamente dalla carrozza, simile a un millepiedi assonnato. Sua madre subito la riprende:
“Alba! Non è un atteggiamento da signorina”.
La giovane si stringe nelle spalle, perché sa che è vero e anche perché è una battaglia persa. È accovacciata davanti a un cespuglio, le gonne raccolte e le caviglie in vista, con il corpetto allentato perché solo così può chinarsi a osservare le strane foglie della pianta che ha attirato la sua attenzione. Alba non si cura troppo del proprio aspetto. La sua tournure, di fatto, giace abbandonata sul sedile.
Quando la sorella scende dalla carrozza, gliela porge con aria di burla.
“Hai dimenticato una cosa,” le dice.
“Non distrarmi, Luisa,” mormora Alba, continuando a osservare la pianta. Allunga la mano, e con estrema delicatezza stacca uno stelo e lo ripone nella sua borsa ricamata.
La sorella le dà una gomitata affettuosa. “L’ennesima borsa da buttare. Le sporchi tutte di fango.” Alba alza gli occhi e sorride.
“Senti chi parla,” ribatte, indicando le sue dita macchiate di inchiostro. Luisa affonda le mani nel mucchio di neve per pulirle. La neve si tinge leggermente di blu.
“Luisa! Cosa ti salta in mente?” La madre si precipita su di lei e le asciuga in fretta le mani con le sue gonne, fino a farle diventare rosse. “Se prendi freddo, ci vorranno settimane per farti passare la tosse, bambina mia.”
Luisa abbassa il capo, avvilita.
A Mercedes non piace ricordarle quanto sia cagionevole. Non vuole privarla della vita di una ragazzina normale.
“Andiamo, bambine, o faremo tardi.”
“Tardi per che cosa? Qui perfino il vento soffia più lentamente...” Alba si rialza e contempla la terra placida che le circonda, la neve complice del silenzio. Un rumore tra gli arbusti che fiancheggiano il sentiero è la sola risposta alla sua domanda: una famiglia di cervi che fuggono spaventati verso il fitto del bosco.
“È perché ancora non siamo vicino alle montagne. Sulla Sierra, però, non diresti così. E poi dobbiamo arrivare a casa, e dal colore che ha il cielo,” dice la madre alzando lo sguardo, “sembra che per la sera si prepari una tormenta. Voglio che sia tutto in ordine per l’arrivo di vostro padre.”
Dopo lunghi mesi di lavori, era giunta una lettera dall’architetto al quale suo marito Eduardo aveva affidato l’incarico degli interventi alla Solariega, la casa che hanno fatto sistemare a Valdecabriel: a parte gli ultimi ritocchi, che era più opportuno lasciare nelle mani dei proprietari, e in particolare al gusto della moglie di don Eduardo, la grande casa era ormai pronta per accogliere la famiglia. Senza indugio, Mercedes si era messa in viaggio con le figlie per arrivare prima del marito, provvista di lenzuola, teli, coperte, pelli e tutto ciò di cui potesse aver bisogno per allestire la dimora che non aveva ancora visto.
Mercedes sa che suo marito ama queste terre, e già solo per questo ha l’obbligo di amarle anche lei, ma al di là del suo dovere di sposa il suo attaccamento a Teruel è profondo e sincero. Guardando le montagne chiazzate di neve, le tornano alla mente gli anni trascorsi in Austria. Era stata mandata lassù da giovane, in un collegio per signorine, dove aveva ricevuto un’educazione come poche ragazze del suo tempo. Conserva ancora tra i suoi oggetti più cari i libri di grammatica tedesca e italiana, e ogni volta che li apre e li sfoglia sente di nuovo le voci di Frau Herschmeier e della signora Lucia, così diverse tra loro: calda e ferma quella della professoressa tedesca, dolce e musicale quella dell’italiana. Ogni giorno leggevano brani di libri e poesie, ogni pomeriggio era un simposio di nomi e di suoni: Goethe, Hölderlin, Petrarca, Dante... E, soprattutto, in quel paese aveva imparato a guardare il cielo e la terra, perché lassù le stagioni si vestivano a festa, erano un tripudio della natura: la primavera e l’estate agghindate di splendidi colori, le colline di un verde brillante e gli uccelli che volavano vivaci da un albero all’altro facevano dimenticare i rigori dell’inverno che, nonostante la neve e il freddo, avvolgeva il collegio in un abbraccio protettivo. La prima volta che aveva visto una delle sue compagne scivolare giù dalla montagna con degli sci ai piedi aveva pensato che stesse volando. Non ci aveva messo molto a imparare a volare anche lei.
Dall’Austria aveva portato un’eleganza come a Santa Ana del Campo, il paese natale di Eduardo, non si vedeva da tempo: l’aria di chi ha respirato la purezza delle montagne, e di chi esce indenne dalle notti di tempesta. E poiché a Teruel la neve poteva fermare il tempo, Mercedes de Cararach, che tanto la amava, era rispettata, come se fosse tornata trasformata in dea. Nessuno degli abitanti di Santa Ana o dei dintorni della Solariega si sarebbe espresso in questi termini, eppure tutti, quando la vedevano, si scoprivano il capo, signori e contadini, e le dame copiavano i suoi vestiti come meglio potevano. Mercedes contraccambiava con generosità quell’amore discreto. Niente di più facile per lei, nell’aria gelida della Sierra, che chiudere gli occhi e rivedersi diciottenne, avvolta nelle nubi, in procinto di sposare il vedovo Eduardo Ruiz de Peñafiel. E così, quando le bambine erano cresciute e Mercedes aveva espresso il desiderio di vivere in campagna, non c’erano stati dubbi sul luogo in cui si sarebbero stabiliti.
Qualche ora più tardi, la carrozza imbocca la strada verso quella che ormai tutti gli abitanti della provincia conoscono come “la casa dei Peñafiel”.
Alba sporge la testa dal finestrino e lascia che l’aria pulita della Sierra di Frías de Albarracín le baci la guancia. All’improvviso, pietra su pietra, fra le rocce delle montagne spunta la casa. La Solariega si erge grandiosa, un quadrato di pietra, ferro e legno costruito per resistere al freddo degli inverni di Teruel, che penetra nelle ossa come l’acqua tra i sassi.
“È un castello, mamma! Guarda, guarda!” esclama Alba.
Mercedes de Cararach guarda, e senza volerlo si acciglia. Per un attimo, il ricordo fugace dello stemma della prima moglie di Eduardo è riaffiorato nella sua mente, sovrapponendosi alla Solariega. Su un torrione di pietra, come quello che ha davanti agli occhi in questo momento.
Mercedes fa scivolare il braccio attorno alle spalle di Luisa, che sorride distratta mentre continua a disegnare il profilo delle montagne. Alba contempla la torre, affascinata. Nella felicità inconsapevole delle figlie, la madre riesce ad allontanare il fantasma della prima moglie, che ha dato due maschi a suo marito. Rabbrividisce, forse per il freddo. La prima cosa da fare, decide, è accendere il camino in ogni stanza. Solo il calore scaccia di casa i fantasmi.
3 - Due sorelle
Le figlie che Mercedes ha avuto da Eduardo hanno ereditato da lei l’amore per la natura. Con l’arrivo della primavera, le due sorelle esplorano la vallata insieme, anche se sono diverse quanto il sole e la luna. Scendono fino al fiume. Luisa si sdraia sotto un albero e si lascia cullare dal cielo, a occhi chiusi, finché le mani non riescono più a stare ferme; allora fruga nella borsa di cuoio che contiene gli oggetti personali di entrambe e prende il suo quaderno e la matita, il prezioso regalo che le ha fatto la madre quando ha compiuto quindici anni. A volte disegna le farfalle che si posano sui rami vicini, come un ladro che studi ciò che si accinge a rubare, prima di catturarle e riporle in un vaso di vetro, bottino del giorno. Altre volte, quando le farfalle non si fanno vedere, riempie le pagine bianche di lettere dell’alfabeto. I suoi quaderni finiscono sempre per essere pieni di cancellature, e le sue dita macchiate di inchiostro. La sorella, Alba, si avventura con le gonne raccolte sopra le caviglie lungo le rive del fiume Cabriel, dove l’acqua è un cristallo, entra ed esce con lo zelo meticoloso di un’ape operaia, accumulando sul lenzuolo che ha portato da casa steli, fiori, foglie, semi e qualsiasi frutto dia la terra, da riportare poi alla Solariega ad arricchire il suo erbario. Non c’è niente che sia troppo banale, tutto desta la sua curiosità. La terra le parla e lei l’ascolta, potrebbe vivere così senza svegliarsi mai.
All’imbrunire, quando il camino divora i ciocchi di legno e il padre se ne sta chiuso nel suo studio, Alba e Luisa giocano a declamare i toponimi della provincia, leggendoli da un volume di mappe della Spagna preso nella biblioteca, mentre Mercedes legge o scrive lettere alla famiglia.
“Valdecuenca.”
“Saldón.”
“Tramacastilla.”
“Torres de Albarracín.”
“El Vallecillo.”
“Olomarde.”
“Pozondón!”
Scoppiano a ridere, poi Luisa aiuta Alba a trascrivere sul suo quaderno di botanica i luoghi in cui ha trovato le specie che ha raccolto quel giorno: la cardogna comune, che Francisca, la domestica, chiama anche cardo, dai fiori aggressivi a punte gialle; il cardo asinino (ne ha portata a casa una bella manciata, perché sua madre dice che è un ottimo decotto per il mal di testa); l’erba gatta, dal color violaceo, che la famiglia materna a Girona chiama erba delle colombe; il fiordaliso maltese, dalle spine talmente dure che deve tagliarlo via dallo stelo avvolgendosi le dita nel fazzoletto; la spergularia, che, a dispetto del nome latino che la definisce rubra, non ha niente di rosso – i delicati fiori sono bianchi e lilla, e cresce fiera nella polvere dei sentieri. Più tardi, Francisca prepara una tisana di cedracca, per la tosse persistente di Luisa.
Quel pomeriggio sono salite sulla collina, perché Luisa voleva disegnare uno scorcio della vallata. Sono uscite di buon mattino. I raggi del sole si velano, Luisa alza lo sguardo. Qui il cielo cambia senza preavviso. Dalla cima della collina spuntano delle teste, orecchie e occhi tinti di nero, come se portassero delle mascherine. Subito dopo ne appaiono altre, fino a formare un gregge di quasi cento animali. Le ragazze sentono il rumore delle zampe che trottano per le fratte; risuona un coro di campanacci, animato dall’abbaiare di un cane. Una sola figura umana accompagna le pecore: si intravede la sagoma della camicia bianca, una macchia chiara contro l’orizzonte, e la pennellata marrone dei calzoni da lavoro. In mano, un bastone da pastore. Al suo fianco corrono su e giù i due cani che badano alle pecore, inquiete per il cielo che si fa sempre più scuro. Luisa si scherma gli occhi per cercare di distinguere i lineamenti dell’uomo, ma il controluce le impedisce la vista, e lo sconosciuto lentamente si volta, un altro frammento di paesaggio che scompare senza preavviso. Una folata di vento porta l’odore acre degli animali, promessa di lana e di formaggio, di latte e di carne.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore