Maurizio Maggiani: Frutti di mare

23 Maggio 2002
Che mi risulti, niente, negli imperscrutati labirinti del pensiero alimentare umano, risulta più equivoco e sfuggente del rapporto tra la cultura occidentale e il mollusco, inteso per la estesa e mutevole congerie di quegli immondi animaletti insediati nelle ben note conchiglie -mono e bi valvi/vulvi- chiamati qui da noi, e solo qui da noi, "frutti di mare"; non so se per il solo fatto che in effetti si colgono o, più accortamente, sottintendendo biblicamente un certo qual peccato.
C'è del torbido, non ne dubito, nel goloso ribrezzo con cui l'Europa si porta alla bocca il grumo viscido e palpitante di un'ostrica o cozza o vongola, nel caso tramortita, ma non giustiziata, da qualche goccia di limone; antidoto, disinfettante, elemento principe della pratica antisatanica.
Per non usar reticenze dico subito che la questione attiene ovviamente al sesso. Di più, a un certo qual modo -nei secoli dei secoli eletto e suffragato- di sancirne una gnosi tutta di parte virile. Ai due estremi ideali della casistica psicopatologica, combacianti alla perfezione, il Capitan Nemo ed il suo contemporaneo Io prustiano. L'uno, comandante della chiocciola d'acciaio a nome zoologico Nautilus, che contempla esterefatto il cavo pulsante e malefico dell'ostrica gigante, imminente pericolo di morte stritolatrice; l'altro, divoratore rapace e -certamente- sbrodolone, di douzaine e douzaine di coquilles Saint Jaques, celebrante con zelo infantile di un rito squisitamente onanistico, ben coronato in finis dal succiamento compiaciuto dei diti indice e pollice e dalle altre immaginabili schifezze taciute ma ben studiate.
Dirò ancora che il casto Robinson Crosue segue l'universale costume popolare si abborrire i frutti che il mare riversa sulla spiaggia, cibandosene egli solo alla disperata, quando ogni altra risorsa alimentare è cessata, e facendolo col grave distacco che occorre a una necessità finale. Mentre è ben nota la passione contraria, e unica nel mondo, dei francesi, che si abboffano tuttora di douzaines e douzaines avendone inibito la mensa per secoli al sesso femminile. Testimone illustrissimo il cinquecentesco diario parigino di Samuel Pepys che loda la pratica amicale di far fuori una barile di coquilles alla larga dalle femmine. Non va tralasciato che è ben ai francesi che va imputato il terribile "mal francese" e la conseguenza di infinite stragi per il mondo.
Tralascio l'ovvio, la simbologia plateale, didattica; e dunque Venere, Galatea, e il restante di mitico-liriche mollusche con tutta la loro compagnia di ostriche nicchi e cipree in processione da Omero al Faust a Lawrence; ci siamo già intesi. Basta solo notare che la vergine in questione è costantemente chiamata a sostituire il mollusco, o, meglio, è il mollusco a cui viene chiesto di trasformarsi in vergine o altro sublimato. Fermo restando la conchiglia, ovviamente. Al proposito della quale dico che "la conchiglia del tuo sesso" è il falso ottonario più abusato della storia della letteratura, canzone italiana compresa.
Mi soffermerei ancora su qualche appunto stuzzichevole riguardante l'inquietante ambivalenza del lubrico commercio tra coscienza e ventresca, tra l'alto sentire della classicità e l'ostregheta.
Notavamo dunque in primis: il mollusco repelle, le sue cornee spoglie sacralizzano e santificano. Sacrificato, a costo di inghiottirlo vivo con adeguata ritualità di lame specifiche, il corpore vili -indigestissima particola di carne viva screziata di sangue-, la conchiglia restante sarà esibita a luogo di purezza ed elevazione.
Promotore di questo dualismo è nientemeno che il San Giacomo di Compostela, padre santo di ogni pellegrino, salvatore della cristianità a credito dei mori. Pare infatti che dalle rive marine non distanti si cogliessero a sua cura gran copia di ostriche per dotazione alla dieta mortificatissima sua e dei piissimi congregati. Con ciò il Santiago elesse di poi la mondata conchiglia a emblema del pellegrinare, tant'è che da lì discende l'uso universale del viandante romeo, o gerusalemitano o compostelano, di appendere alla verga del suo pedestre impegno, una conchiglia con la quale accattare l'elemosina e attingere acqua alle fonti della via.
Ma sarebbe giusto attribuire ogni merito riguardante il pensiero sul mollusco al vecchio buon Aristotele. Il quale spese un qualche anno della sua vita insulare, ammazzando -diciamo così- l'uggia del suo esilio, nello studio della copula e procreazione del riccio di mare. Tanto impegno è arrivato a noi nella "De Generatione Animalium" e ci possiamo ancora stupire della pignola attenzione con cui il filosofo massimo descrive del misero e puntuto mollusco ogni sua cosa e affare. Se li portava a casa i suoi ricci e li poneva in una bagnarola per poter goderseli meglio. Mai l'ammissione di un tentativo alimentare, mai; e noi dobbiamo credergli. Ma un saggio di diversi volumi (di allora) sui singolari e raggelanti costumi sessuali del suddetto. Costumi piuttosto interessati alla multifunzionale bocca. Se cercate su un atlante di zoologia troverete che quella specie di sifone ha per nome "lanterna di Aristotele". Tanto per dire.
Ma non dirò di più. Se non che chi scrive viene da un paese di mare dove i molluschi a nome cozze, ovverossia muscoli, mitili, vengono allevati con grande profitto ed esportati in tutto il mondo civile. A sua memoria non riesce a trovare un solo appellativo, una sola fola, un solo detto, che colleghi nella scienza popolare questo "frutto di mare" a checchessia se non a se stesso.

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …