Salvatore Veca: La filosofia salvata dai ragazzini

16 Settembre 2005
Mi è accaduto recentemente di mettermi alla prova scrivendo un libretto, in cui presento la mia prospettiva filosofica in una serie di scorribande nel giardino delle idee con mia nipote Camilla, detta Billa. Il giardino delle idee con la sua siepe e il suo oleandro, con il corteo pasticciato dei nostri cani, della nonna, di mamma e papà, zie e zii, è la scena di un teatro (e la trama di un lessico) familiare, in cui il nonno filosofo, un po' parolaio, e la nipote, anche troppo paziente, si aggirano giorno dopo giorno, capitoletto dopo capitoletto, tra un perché e l'altro. Acchiappano risposte e si trovano alle prese con nuove domande. Esplorano connessioni di idee. Cercano di mettere in ordine la scena familiare, messa a soqquadro dal vento dell'incertezza. Hanno appena finito di cercare di capirci qualcosa, di rendere chiara e perspicua la risposta agli enigmi della verità e della giustizia, della bontà e della ragione, della realtà, della comprensione e della bellezza, di Dio, dell'importanza e del mondo. E poi le cose di nuovo si complicano. E si ricomincia il giro.
Perché nella filosofia come nella scienza, lo sappiamo, la ricerca non ha fine. Il gran gioco dei perché evoca l'immagine delle bambole russe o la storia di una ciliegia che tira l'altra. E, possiamo aggiungere, è bene riconoscere che è bene sia così. Su questo, alla fine, sembra d'accordo anche mia nipote, almeno per un po'.
Ho costruito Il giardino delle idee, mettendo assieme una gamma di grandi domande filosofiche. Le grandi questioni ricorrenti. Domande che hanno ricevuto un'ampia, complicata e meticcia catena di risposte entro la pasticciata e insatura tradizione filosofica. Una tradizione, anche solo la nostra, che è intrinsecamente multiculturale. E ho cercato di abbozzare alcune risposte, quelle che mi sono divenute più familiari nel corso della mia ricerca filosofica, in un modo che cerca di prendere sul serio il diritto del lettore o della lettrice ad essere effettivamente lector in philosophia. In parole povere, il mio scopo è quello di favorire e rendere agevole o almeno attraente a chi, per sua fortuna o sfortuna, non dedica la propria vita alla ricerca filosofica, un accesso al giardino delle idee, se gli va. Un accesso friendly. Un'esemplificazione della mia idea di ospitalità filosofica. Ma con una preoccupazione principale: di far sì che, entrando nel giardino delle idee, una si appassioni al gran gioco dei perché e le venga voglia di continuare da sola, da par suo. E tutto ciò, in un contesto particolare: quello in cui a noi adulti accade di accompagnare - in vari modi - bambini. (I molti modi dell'accompagnare includono, inter alia, l'ascoltare, il domandare, il guidare, l'insegnare, l'assicurare, il rassicurare, il giocare, il sorridere, il far fiorire, l'augere, ecc.)
Le mie scorribande non sono propriamente esercizi di children philosophy (un tipo di attività intellettuale che apprezzo molto e che è certamente difficile e importante, tanto quanto poco praticata dalle nostre parti); né m'interessa, come ha scritto qualcuno, fare prove da Mondo di Sofia alla Jostein Gaarder, tentare cioè di divulgare la storia del pensiero e delle variegate teorie o dottrine filosofiche nel tempo, dai presocratici sino a Rorty, Foucault, Bernard Williams e Derrida. Il mio punto è differente: rivolgere atti di comunicazione a chi si trovi impegnato in quell'impresa difficile e preziosa di accompagnare i cuccioli d'uomo nell'avventura dell'esplorazione del mondo e della costruzione del sé.
La convinzione militante è quella della resistenza e della lotta contro la condanna dei bambini alla sorte quotidiana della solitudine involontaria, anche quando tv e playstation sono all'opera senza sosta. E questa è la mia morale della favola.
Non sta naturalmente a chi scrive dire se la faccenda funziona. Questo lo può dire solo chi legge. Ma nulla vieta a chi scrive di confessare come gli piacerebbe andassero le cose. E non ho nessuna difficoltà a confessare che il mio ideale è questo: far provare, grazie alla scrittura, alle scorribande e ai giri qua e là nel giardino delle idee, la sensazione della bellezza e dell'appagamento che uno o una sente o può sentire, giocando al gran gioco dei perché. Sentire la bellezza e l'intensità dell'esplorazione intellettuale. Provare la passione d'amore filosofico: amore non della saggezza o della verità, ma propriamente della ricerca della saggezza o della verità. Il mio ideale confessato ha a che vedere e chiama in causa gli stati del sentire qualcosa, non gli stati del sapere o del credere qualcosa. O, forse, e più precisamente, la connessione più densa possibile fra stati del sentire e stati del credere e del sapere, data la priorità degli stati del sentire.
Un omaggio al tema del festival di quest'anno, evocando con blanda infedeltà il sublime Rimbaud e le sue Voyelles ("A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu…"; provate a pensare un po' di esercizi di cocktail lievemente sinestesico con i ragazzini, un po' di esercizi alla Rimbaud), ci parlerebbe del gusto: e dell'assaporare, passo dopo passo, il piacere dell'esplorazione. Del tatto: e del nostro sfiorare o saggiare le superfici, lisce, levigate o scabre e corrugate, dei territori della ricerca. Dell'udito: e dell'ascolto delle voci nell'ininterrotta conversazione o nel brusio dei frammenti dell'interminabile discorso amoroso della ricerca. Dell'olfatto: e della fragranza delle idee che fioriscono o dell'odore triste delle idee appassite, metafore viventi convertite alla Nietzsche in verità trite. E, naturalmente, della vista e delle sue familiari virtù eidetiche. Se aggiungiamo, concedendo solo qualcosa al rito del citarsi addosso, un sensorium commune aristotelico, l'omaggio può aspirare a rendere conto dello stato del sentire la passione filosofica.
Ma qui è meglio che mi fermi, come mi raccomanderebbe mia nipote Billa, quando il nonno si gasa. Il gasarsi è spesso connesso all'eccesso del citarsi addosso, alla Woody Allen in versione doc.
L'ingiunzione di Billa mi suggerisce di chiarire un punto importante, che ho solo sfiorato nella Premessa al libro e alle scorribande nel giardino delle idee, ai quattro passi nel mondo della filosofia. Un punto di cui ho discusso in particolare nel mio ultimo libro, La priorità del male e l'offerta filosofica. Vi sono filosofi convinti del fatto che l'attività filosofica abbia una sorta di primazia o di superiorità nei confronti di ogni altro tipo di attività intellettuale. Secondo questi colleghi, la filosofia dispone del monopolio delle domande e delle risposte veramente importanti. Nel senso che quelle filosofiche sono domande e risposte più importanti di tutte quelle a disposizione in altri tipi di indagine e disciplina intellettuale. Basta pensare, in proposito, alle leggende metropolitane sul sapere scientifico o tecnologico.
Io non appartengo a questa onorevole compagnia. Sono convinto che alla filosofia vada riconosciuta l'importanza che ha, nulla di più e, naturalmente, nulla di meno. Ma esattamente come a qualsiasi altro tipo di attività intellettuale. La ragione per cui ho affidato all'arte filosofica delle domande o dell'interrogazione la mia versione del gran gioco dei perché, dipende dal semplice fatto che ho dedicato la mia vita alla ricerca filosofica. E non all'astrofisica, all'algebra, alla genetica o all'economia, al diritto, all'archeologia o alla storia della musica. Punto e basta. Ma, se è così, diventa allora importante mettere a fuoco, con qualche precisione, la natura della domanda in quanto domanda filosofica. Vorrei chiarire che cosa contraddistingue il gran gioco dei perché, in quanto gioco filosofico o, se volete, in quanto giostra di puzzle socratici. Per fare ciò, devo introdurre una congettura a proposito della natura dell'indagine filosofica, per come io l'intendo.
La congettura ci dice che le domande filosofiche sono generate dalla tensione fra la descrizione di come stanno le cose e il senso che ciò ha o può avere per noi. La filosofia mira ad esiti di equilibrio riflessivo fra le nostre credenze. E, facendo ciò, mira a dare un senso perspicuo a noi stessi e alle nostre prospettive su noi e sul mondo. In una parola, essa mira, in quanto sapere d'identità, all'autoritratto. Per le prove d'autoritratto, il filosofo si avvale di congetture, modi di guardare le cose, assunzioni, ipotesi che in vario modo fanno parte dell'eredità o del retaggio, come direbbe Jacques Derrida. La tradizione filosofica non è altro che lo sterminato repertorio, pasticciato e intrinsecamente non convergente, di exempla di modi alternativi di vedere le cose. Modi fra loro alternativi di dar senso, di commentare, di valutare, di giudicare, di immaginare le cose della vita.
Così, suggerisce la congettura, la filosofia rivela il suo carattere scarsamente cumulativo ed essenzialmente pluralistico, in modo distinto rispetto ad altro tipo di esplorazione intellettuale quale quello, grosso modo e per lo più, dell'impresa scientifica. Qui, sembra di poter dire, la prossimità della filosofia è piuttosto quella con i linguaggi dell'arte, nel senso di Nelson Goodman.
Grazie alla congettura, possiamo dire che il puzzle socratico ha la natura della domanda di spiegazione filosofica, nel senso di Robert Nozick. Ci chiediamo come sia possibile qualcosa, considerando l'insieme delle credenze che tendono, a prima vista, a escludere che quella cosa lì, quale che sia, sia possibile e che sono in conflitto con quella possibilità. Com'è possibile che noi ci pensiamo come agenti liberi, dato il fatto del determinismo? Com'è possibile che noi rintracciamo la verità, dato l'esclusore prima facie dell'obiezione scettica? Com'è possibile costruire una teoria della giustizia globale, dato l'esclusore prima facie del realismo politico (il principale perché o il gran rompicapo della filosofia politica contemporanea)? Com'è possibile che noi comprendiamo altri e conviviamo con altri esotici, dato l'esclusore prima facie delle differenze e le tesi del relativismo o dell'incommensurabilità, dell'intraducibilità fra uomini e donne che si riconoscono in differenti culture e forme di vita in comune? Questo, per caratterizzare la natura della domanda. Per caratterizzare la natura della risposta, basti dire che la risposta è intrinsecamente insatura, con tutta l'eco delle alternative e della varietà delle nostre prospettive. E che l'ultima parola cui essa inevitabilmente e ostinatamente mira è, altrettanto inesorabilmente, destinata alla conversione nella penultima.
Queste caratteristiche della domanda e della risposta rendono conto di che cosa distingua e ci consenta di riconoscere il gran gioco dei perché o la giostra dei puzzle socratici. Che cosa distingua il gioco dei perché filosofico rispetto al gioco dei perché di un fisico o di un biologo o di un matematico. È vero che il kit del piccolo chimico è diverso da quello del piccolo filosofo. Ma, devo aggiungere, ora c'è qualcosa che rende conto di altro tipo di prossimità, rispetto a quella con i linguaggi dell'arte: si tratta della prossimità fra l'esplorazione filosofica e l'esplorazione scientifica, fra l'esplorazione che mira al senso e all'autoritratto e quella che mira alla descrizione che ci dice come stanno le cose. C'è l'esperienza della meraviglia. L'esperienza della perplessità. L'esperienza dello stupore, quella per cui forse dovremmo essere disposti, più disposti ad imparare cose illuminanti dai nostri nipoti.
Qualcosa non torna. Gran mal di testa. Pratica del grattacapo alla Wittgenstein. Disagio alla Dewey. Sentiamo che dovremmo guardare le cose in altro modo, perché tornino, quelle maledette cose: le cose del mondo, le cose della realtà, le cose della vita. Allora, proviamo a cambiare prospettiva. Mettiamo a fuoco dettagli prima non sottoposti a scrutinio attento. Ci inventiamo modi strani, modi non usuali. Modi inaspettati, rischiosi. Modi che resistano alla pigrizia e all'abitudine, così preziosa per creature d'abitudini come noi siamo. Dobbiamo metterci in questione. E mettere in questione, sottoporre ad inchiesta, investire d'incertezza le nostre credenze. E via, con il viaggio in mondi e territori e prospettive nuove e illuminanti. Senza assicurazioni sull'happy end di tutta la faccenda, né sul rimborso o su qualche garanzia in caso di fallimento dell'investimento investigativo. Via così, senza rete.
Questo - semplicemente - ci ricorda il vecchio adagio secondo cui la filosofia, come la scienza, nasce dalla meraviglia. E non ha fine. E questo, aggiungo, lo si può provare, lo si può sentire. Vi dirò, acchiappando ancora una volta Rimbaud: lo si può gustare, assaporare, toccare, vedere, annusare, ascoltare nell'aria, nelle circostanze della passione d'incertezza.
Ma ora devo almeno far cenno alle scorribande e ai giretti qua e là, nel giardino delle idee, fra la siepe e l'oleandro, e un mucchio di code, codone e codine dei cagnotti. Per prendere sul serio lo slogan che ho scelto, vagamente alla Elsa Morante, della filosofia salvata dai ragazzini. Vorrei dire qualcosa a proposito del primo giro del gran gioco dei perché: quello che comincia quando ci si chiede come si fa a dire tra noi un mondo. Com'è possibile che il nostro linguaggio dica un mondo per noi? Quale rapporto fra le parole e le cose? Come sanno i filosofi, la questione del ruolo del linguaggio nelle nostre forme di vita è una di quelle importanti, difficili e ineludibili. Ma perché cominciare le scorribande con una nipotina proprio dalla faccenda dei nostri usi del linguaggio, dalla nostra dimensione di animali linguistici? Risponderei così: sappiamo tutti quanto complessa, delicata e affascinante sia la vicenda dell'apprendimento linguistico dei piccoli. E sappiamo anche quanto la padronanza del linguaggio sia una delle risorse cruciali per orientarsi, con altri, in una realtà, senza perdersi nel mondo. Non c'è bisogno di ricorrere alla tesi di Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e mondo o sui giochi linguistici e le forme di vita, né alla tesi di Donald Davidson sulla teoria dell'interpretazione. Basta riflettere sul fatto elementare e quotidiano dei ragazzini impegnati nell'esplorazione e nel padroneggiamento dei modi dire le cose agli altri e a se stessi...

Salvatore Veca

Salvatore Veca (Roma, 1943 - Milano, 2021) è stato uno dei più importanti filosofi italiani. Ha insegnato Filosofia politica alla Scuola Universitaria Superiore Iuss di Pavia, di cui è stato …