Giorgio Bocca: Principe senza regno

31 Maggio 2004
Umberto Agnelli era il principe ereditario che non avrebbe regnato veramente neppure dopo la morte del re Giovanni suo fratello. Per una ragione molto semplice sulla quale si sono appese, abbiamo appese le spiegazioni più diverse e fantastiche: il grosso del pacchetto azionario era di Giovanni e non suo. Una diversità decisiva, feudale per cui il re stava sulla collina di Torino a villa Frescot e il principe ereditario alla Mandria nella pianura pedemontana. Noi provinciali eravamo arrivati a Torino dopo la guerra, nella democrazia nascente, nei suoi miti e nelle sue passioni. Eravamo entrati nelle sue nascenti religioni laiche, leniniste, gramsciane, degasperiane e, come per naturale gravità, dentro le antiche strutture feudali sostituite naturalmente, a Torino e in Piemonte, da quelle del capitale, per cui comunisti o democristiani o altro che fossimo il ruolo cadetto di un Umberto Agnelli nessuno di noi lo discuteva. Certo non sembrava brillante e charmeur come il primogenito Giovanni, appariva discreto e modesto, con scarso carisma ma restava secondo nell'asse ereditario di un potere che non era venuto meno durante la Resistenza e che si era ricompattato subito dopo la liberazione come qualcosa che apparteneva alle strutture sociali indiscutibili. Il re sulla collina a villa Frescot, l'erede alla Mandria nell'affascinante pianura prealpina, dove anche i fiumi delle valli di Lanzo diventavano riserve private della famiglia regnante. Si erano formate, come durante il regno savoiardo, due casate: la più numerosa e potente al seguito di Giovanni l'avvocato, un'altra di minor numero e di minor potere di Umberto. Ma c'era sempre qualcuno della seconda che sognava, sperava in un rovesciamento miracoloso delle parti o che magari, come lo scrittore Paolo Volponi, vedeva in Umberto - che lui chiamava il giovanotto - ciò che non era, un nuovo Duca di Urbino protettore delle arti e delle scienze in un rinascimento piemontese già fallito con Adriano Olivetti. Io leggevo di questo sogno nei libri di Volponi, l'urbinate, e per questo mi stregava nelle sue vesti fantastiche di consigliere del principe Umberto che da piemontese rimaneva invece ben legato alle regole dinastiche del capitalismo feudale, ai rapporti azionari simili a quelli terrieri con il fratello maggiore e con tutti gli altri grandi azionisti della famiglia. Nella quale i ruoli erano perfettamente chiari. Ricordo una colazione nella villa della signora Nasi Agnelli a Portofino. Lei lo chiamava Umbertino e sorrideva delle sue avventure amorose come di un principino incauto e inesperto. Il che implicava anche l'idea della impunità assoluta della famiglia reale, del suo passare per incidenti di auto e disavventure amorose senza il minimo timore di lasciarci qualche penna. Le due casate erano separate e se ne conoscevano i componenti. C'era con Gianni tutta la direzione Fiat in carica, con Umberto gli scontenti, quelli che lo avevano seguito nell'avventura politica con i democristiani, gli altri che si era portato dietro alla direzione del calcio, fra cui un industriale siderurgico di estrazione comunista, che aveva al seguito persino la Felicita Ferrero, una sopravvissuta alla Mosca di Stalin, agli uffici della censura del Glavnit. Nella famiglia Agnelli come in tutte le grandi famiglie industriali funzionava la divisione dei ruoli: Gianni si diceva simpatizzante di La Malfa e dell'Edera, Umberto accettava la candidatura democristiana. Gianni regnava a Torino e in Italia distribuendo bon mots e snobismi alti e bassi sui modi di portare le cravatte o di indossare stivaletti. Il primo in modi teatrali, il secondo riservati, fingevano di avere un ruolo decisivo nella gestione aziendale. I consiglieri di Umberto come Rossignolo gli attribuivano una volontà di uscire dalla monocultura automobilistica per avventurarsi in produzioni diverse; ma in realtà il destino della Fiat era segnato, era nata come costruttrice di automobili e tale sarebbe rimasta anche nella decadenza. Una lunga decadenza. Abbiamo impiegato decenni per arrivare a una Torino senza la grande Fiat e siamo arrivati al 2004 per conoscere una Torino senza Agnelli, perché non si possono considerare tali gli Agnelli che oggi siedono nel consiglio di amministrazione. Già nel 1998 Torino era senza la grande Fiat senza il centro di potere industriale che dominava la intera economia nazionale. Già allora il professor Pinchierri presentava al sindaco di Torino una relazione "sul comparto produttivo. Mirafiori sembra intatta con i suoi tredici chilometri di perimetro, con i suoi quaranta chilometri di raccordi ferroviari, le trentadue porte, immensa e quadrata come la città della Apocalisse, ma un'epoca è finita". Al Lingotto ristrutturato dall'architetto Piano arrivavano sempre ospiti illustri e famosi come il campione automobilistico Schumacher e nelle notti le stelle rosse della Fiat splendevano dalla piana di Orbassano ai Ricambi alla barriera di Milano, ma a camminare per le strade di quella che era stata la "cintura rossa" trovavi una periferia grigia, smorta, gente che sembrava bastonata. Nei primi giorni del dopoguerra questa Torino era una città semidistrutta ma viva, dove uomini tornati liberi sembravano trascinati dalla voglia di vivere. L'uomo Fiat era povero ma fiero, viveva con quattro soldi in una periferia sporca e mal servita ma si sentiva classe. Un uomo che non si riconosce più oggi nella nuova Fiat dei "quarti", un quarto a Torino, un quarto nel resto d'Italia, un quarto nell'Est europeo e in Asia, un quarto nell'America del sud. Dalla Fiat della leggenda, dalle celebrazioni vallettiane già negli anni Novanta si è passati alla Fiat dei conti nudi e crudi. "Una grande azienda automobilistica che voglia sopravvivere - diceva il capo del personale Magnabosco - deve investire (e si era nel '98), dai quattromila ai cinquemila miliardi di lire l'anno. Se non investi oggi domani sarai espulso dal mercato. Per sopravvivere devi avere una produzione di tre milioni di auto l'anno. Per venirne a capo ci sono solo i tagli e la fuga. I tagli dei dipendenti, la fuga da Torino". I fratelli Agnelli lo sapevano ma non volevano accettarlo. In questi due cittadini del mondo, informati, sofisticati, ricchi di consiglieri, di esperti, sopravviveva invincibile un patriottismo piemontese, feudale, familiare, per cui gli era impossibile accettare la fine del loro modo di essere, di pensare, di vivere. Gli ultimi anni della famiglia si configurano come un calvario previsto ma non evitato, come una serie di eventi amarissimi per l'azienda come per la famiglia: la perdita dei figli Giovanni ed Edoardo, di Giovanni in particolare a cui affidavano la vana speranza di una rinascenza. Nei giorni del dolore sia Gianni che Umberto hanno fatto fronte con grande coraggio, dimostrando che dopo tutto un'educazione privilegiata come la loro può rivelarsi migliore di una senza principi. Morto Gianni, il principe ereditario Umberto ha accettato l'amaro destino del liquidatore della passata grandezza con grande umiltà. Poteva gettare la spugna, poteva adattarsi a un comodo tramonto. Ha creduto che fosse suo dovere accettare la corona nei giorni della decadenza. Ha svolto la sua parte fino in fondo. Lo ha fatto dignitosamente in un tempo, in un paese che sembrano aver dimenticato dignità e responsabilità.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …