Stefano Rodotà: Il caso Pistorius e il post-umano

20 Luglio 2007
I confini dell’umano sono divenuti mobili, vengono continuamente attraversati alla ricerca di perfezionamenti del corpo che gli facciano superare i limiti che la natura o gli accidenti della vita gli hanno finora imposto. "L’uomo è antiquato" - scriveva già nel 1956 Günther Anders. E i telefilm degli anni ‘80 avevano reso popolare l’immagine dell’uomo "bionico", un essere in cui convivevano organi biologici e artificiali, modificando così la natura umana e facendole assumere la forma del cyborg. Oggi quel modello si è materializzato davanti agli occhi del mondo ed ha le sembianze di Oscar Pistorius, il giovane sudafricano che compete con successo con gli atleti "normali", pur avendo subito fin dalla nascita l’amputazione delle gambe dal ginocchio in giù, sostituite da due protesi in fibra di carbonio.
Il mondo s’interroga non solo intorno alla misura di artificialità ammissibile nelle competizioni sportive, ma più in generale sul senso profondo di un intrecciarsi sempre più intenso di biologia e tecnologia, sul post-umano. ‟Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si "trascende" sempre di più – e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale”. Queste parole di Anders descrivono un’ambizione, una insoddisfazione; e, insieme, una preoccupazione. Sottrarsi ai limiti imposti dalla fisicità, alla fatalità che questa porta con sé, alla finitezza del corpo, per proiettarsi in una dimensione che sfida la stessa morte sulla spinta di un turbocharged optimism. Siamo in presenza di uno spostamento infinito della soglia verso un "oltre" il corpo fisico che non conosce definizione, né limiti. Torna così un interrogativo che ormai ci accompagna in ogni momento. Tutto ciò che è tecnologicamente possibile dev’essere anche considerato eticamente ammissibile, socialmente accettabile, giuridicamente lecito? Quali sono i criteri di giudizio, i principi ai quali appellarsi?
La federazione internazionale di atletica sembra voler ricorrere al criterio della normalità, all’umano come misura del lecito sportivo. Si dovrebbe stabilire se le protesi, lungi dall’incarnare una disabilità, permettano a Pistorius di godere di un indebito vantaggio competitivo (spinta maggiore, minor resistenza dell’aria). Ma sul sentiero della manipolazione scientifica del corpo dell’atleta ci si è da tempo incamminati e, doping a parte, molti interventi sono ormai considerati leciti. Peraltro, una quota crescente di artificialità è ormai accettata per ciascuno di noi attraverso trapianti, pacemaker, inserimento di placche di metallo. Indiscutibile appare, in questi casi, la finalità che si vuole raggiungere: la tutela della salute, il ripristino di funzioni perdute. Se si prescinde dalla competizione sportiva, chi condannerebbe in nome dell’intoccabilità dell’umano l’impianto delle protesi che consentono a Pistorius di camminare, di muoversi liberamente nel mondo? In questa prospettiva normalità e umanità assumono un significato nuovo.
Dove si dovrebbe cogliere il segno di una discontinuità inaccettabile perché l’umano viene sommerso e cancellato dal flusso tecnologico? Le descrizioni del futuro, quale ci viene presentato dalla miriade di ricerche in corso, fanno apparire marginale la vicenda di Pistorius. Il post-umano è associato a trasformazioni ben più profonde. Si parla della nascita di una nuova specie, di entità prodotte dall’ibridazione del dato biologico ad opera della tecnica, nelle quali diventerebbe difficile riconoscere lo specifico umano. L’essere umano viene così presentato come una entità in continua trasformazione, e il nuovo modo d’intendere l’umanità implicherebbe anche una ridefinizione dei rapporti con le altre specie.
Una rappresentazione enfatica del mondo a venire? Ma è indubitabile che siamo di fronte a mutamenti radicali del rapporto tra natura e cultura, tra componenti biologiche e componenti culturali, all’abbandono di una dimensione dove alla biologia veniva assegnata anche la funzione di limite. Questa funzione non può essere recuperata invocando ritorni al passato. È proprio al dato culturale, allora, che dev’essere rivolta l’attenzione, riflettendo ad esempio sul significato che, nella nuova prospettiva, assume il riferimento alla dignità della persona. Qui, e non nella materialità del dato biologico, dev’essere ricercato il limite, il criterio per il giudizio.
Se si adotta questo punto di vista, ci si può accorgere che le caratteristiche dell’umano, più che dal caso Pistorius, sono messe in discussione dal modo in cui, in una colpevole disattenzione, si sta costruendo una società della sorveglianza di massa. Dovrebbero preoccupare i casi di lavoratori ai quali viene imposto di portare al polso un piccolo computer, che consente al datore di lavoro di dirigere, via satellite, il loro lavoro, indicare le attività da svolgere, controllare ogni movimento del dipendente, individuare in ogni momento dove si trova. In un rapporto del 2005 dell’università di Durham, richiesto dal sindacato inglese GMB, si sottolineava che questo sistema riguardava già diecimila persone, trasformando i luoghi di lavoro in battery farms e creando le condizioni di una prison surveillance. Siamo di fronte ad un Panopticon su scala ridotta, che anticipa e annuncia la possibilità di diffondere su scala sempre maggiore queste forme di sorveglianza sociale.
All’inizio dell’anno scorso una società dell’Ohio, City Watcher, è andata ancora più a fondo nella manipolazione del corpo dei suoi dipendenti, imponendo ad alcuni di essi di farsi impiantare nella spalla un microchip per essere identificati all’ingresso di locali riservati. Il corpo viene così modificato nella sua stessa fisicità e predisposto per essere direttamente controllato. E la tecnica dell’inserimento nel corpo di microchip leggibili a distanza si diffonde nei settori più diversi, tanto che in una ricerca condotta da una università israeliana si è ipotizzato che, ‟prima del 2020, nei paesi industrializzati si impianterà un microchip in tutti i nuovi nati”.
Ma che cosa diventerebbe una società nella quale un numero crescente di persone venisse "etichettato" per essere costantemente sorvegliato, e il corpo umano venisse assimilato ad un qualsiasi oggetto in movimento, controllabile a distanza con una tecnologia satellitare o utilizzando le radiofrequenze? Davanti a noi sono mutamenti che toccano l’antropologia stessa delle persone e annunciano non l’avvento di una nuova specie post-umana, ma l’abbandono del rispetto della dignità, e dunque, dell’umanità, di ogni persona. Drizziamo le antenne di fronte ai casi limite, ma non chiudiamo gli occhi di fronte alla costruzione di una inquietante normalità.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …